Dove morì il Re?

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Dove morì il Re?

di Arturo Frasca

La mia grande passione, direi quasi venerazione, per Federico III di Sicilia, il più grande e amato sovrano che la Sicilia (e forse non solo la Sicilia) abbia mai avuto, l’una e l’altra inculcatemi dall’indimenticato professore Corrado Mirto la cui cultura, immensa umanità e disarmante semplicità si esaltavano nella figura dell’accademico di fama mondiale, il più grande conoscitore di Storia medioevale siciliana e della Rivoluzione del Vespro in particolare, … questa mia grande passione, dicevo, mi ha spinto a più riprese a scriverne, di lui e della sua famiglia, nonché a scavare, a cercare, a trovare tracce, forse, del suo grande amore, di quella Sibilla che gli diede cinque figli, Alfonso Federico, Orlando, Isabella, Eleonora, Sancho e di cui, da un certo momento in poi, a partire dal 1302 per l’esattezza, se ne persero completamente le tracce.

(https://sikeloi.net/monografie/cercando-sibilla/)

 

Ammalatosi gravemente nella tarda primavera del 1337, morì il 25 giugno del 1337 nel convento dei Cavalieri di San Giovanni, tra Paternò e Catania, dopo oltre quarantun anni di regno. La sua salma sarebbe stata poi ricomposta all’interno del castello Ursino, prima della sepoltura nel Duomo di Catania.

 

Rispetto alla versione tradizionalmente accettata, ne esiste un’altra leggermente diversa in merito agli ultimi momenti della sua vita, in particolare per quanto concerne il luogo della morte, proposta ne “Il luogo di morte e di mummificazione del Re di Sicilia Federico III nel 1337” (Archeomedia, 2018) da Santi Maria Randazzo, appassionato e attento studioso delle vicende di Sicilia e della Sicilia aragonese in particolare. Tra le sue opere, sono particolarmente apprezzate “Il ritorno degli Aragonesi in Sicilia. Vicende antecedenti e coeve all’insediamento sul trono di Sicilia di Martino I detto il Giovane” del 2019 (edito da Algra Editore), addirittura con la prefazione di Henry Bresc, storico francese considerato una vera e propria autorità delle vicende storiche della Sicilia medioevale, e il più recente “Inessa. Città di Sicilia sacra e nobilissima” del 2022 (Mare Nostrum Edizioni), nel quale si avanza l’ipotesi che la mitica città di Inessa, fondata forse intorno al XII-XI secolo a.C., sorgesse nei luoghi dell’odierna Motta Sant’Anastasia, in provincia di Catania.

La versione proposta dal Randazzo difficilmente, forse, potrà mai avere conferme certe, ma è comunque estremamente interessante da conoscere, oltre che affascinante e direi molto ben documentata.

 

Da testimonianze che risalirebbero a Pietro Speciale, pretore del regno vissuto tra il 1405 e il 1474, uomo di cultura e autore egli stesso di manoscritti di storia siciliana, come richiamate nel volume “Catania prima del 1693” dello storico catanese Guglielmo Policastro, vissuto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà circa del Novecento, prima della tumulazione il corpo di Federico III sarebbe stato sottoposto a mummificazione da parte dei Cavalieri Gerosolimitani. E, in effetti, nel Tardo Medioevo siciliano e in particolare nel periodo aragonese, la mummificazione era usanza assai diffusa, soprattutto quando si trattava di uomini illustri.

In un interessantissimo volume pubblicato, nel mese di dicembre 2005, come Supplemento n.1 a Medicina nei Secoli dell’Università Sapienza di Roma, dal titolo “Le mummie e l’arte medica nell’evo moderno. Per una storia dell’imbalsamazione artificiale dei corpi umani”, gli autori Silvia Marinozzi e Gino Fornaciari affrontano in maniera approfondita e dettagliata il tema dell’evoluzione dei sistemi d’imbalsamazione artificiale. Tutta la seconda parte del testo, quella a firma del Fornaciari, tratta delle tecniche imbalsamatorie in Italia attraverso l’esame delle mummie dell’Italia centro-meridionale, dedicando ampio spazio a quello che fu chiamato Progetto Aragonesi: «Tra il 1983 ed il 1987 la Sezione di Storia della Medicina e Paleopatologia dell’Università di Pisa ha condotto esami antropologici e paleopatologici sulle salme custodite nei 44 sarcofagi conservati nella Sacrestia monumentale della Basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli […] contenenti le salme di nobili e principi napoletani del XV e XVI secolo, tra i quali i corpi di 12 re e principi Aragonesi».

Oltre a mettere in evidenza palesi incongruenze in quella che era la tradizionale attribuzione delle mummie a personaggi storici che si ritenevano correttamente identificati, analisi paleopatologiche su 31 individui furono utilizzate per diagnosticare eventuali patologie in vita ovvero le cause della morte, per determinare tipi di alimentazione e quant’altro, nonché per ricostruire le tecniche d’imbalsamazione e individuare materiali e modalità utilizzati per il riempimento. Segue, quindi, la descrizione dettagliata di ciascuna delle mummie esaminate, con dovizia di riproduzioni fotografiche.

Nelle Conclusioni, a pagina 323, il Fornaciari riassume sinteticamente, ma brillantemente, gli esiti degli studi condotti, affermando che «Il fascino ed il potere suggestivo che le mummie egiziane hanno esercitato sull’immaginario collettivo in età moderna hanno stimolato eruditi dei più vari e disparati generi (medici, speziali, archeologi, storici, naturalisti) a tentare di interpretarne la vera natura ed a definire una metodologia precisa di mummificazione. La classica procedura descritta da Erodoto, che prevedeva le quattro fasi di eviscerazione, disidratazione con natrum, riempimento delle cavità con sostanze aromatiche e bendaggio, viene infatti tenuta presente nell’imbalsamazione dei corpi in età moderna. Se nel corso del Medioevo nell’Europa Occidentale si era affermate la pratica della “bollitura” dei corpi dei sovrani, già nel XV secolo, con la rilettura dei classici e dei testi medici arabi, si diffonde l’uso della clisterizzazione dei cadaveri, metodo utilizzato già nell’antico Egitto e ripreso poi dai medici e chirurghi arabi. Si assiste pertanto ad un fenomeno che potremmo definire di “chirurgicizzazione” dell’arte dell’imbalsamazione dei corpi […]. Si afferma così un sistema d’imbalsamazione “ufficiale”, che prevede essenzialmente le seguenti fasi: lunga incisione longitudinale dal collo al pube per l’eviscerazione della cavità toraco-addominale; craniotomia; scarnificazione del corpo; reiterati lavaggi delle cavità eviscerate con acqua salata o aceto o acquavite; aspersioni esterne ed interne di polveri e ceneri, calce o gesso; riempimento delle cavità cranica, toracica ed addominale; bendaggio del corpo. Le mummie artificiali rinvenute nell’Italia centro-meridionale rappresentano un esempio tangibile dell’applicazione di tali procedure, sebbene si riscontrino differenze metodologiche che vanno a delineare una scala gerarchica all’interno del medesimo metodo d’imbalsamazione, da quello più completo, che prevede l’eliminazione della maggior quantità di materia organica possibile, al meno complesso, spesso risolto con la sola eviscerazione della cavità toraco-addominale. Diverse sono anche le tecniche di incisione eseguite per l’estrazione degli organi e per la craniotomia».

È realistico supporre che le stesse o analoghe tecniche di imbalsamazione venissero utilizzate anche nel Regno di Sicilia, nel periodo aragonese. In particolare, qualora Federico III sia stato effettivamente sottoposto a mummificazione, è altrettanto verosimile che, essendo egli il sovrano, tra l’altro amatissimo da un intero popolo, si sia nel suo caso proceduto all’eviscerazione completa degli organi interni e all’eliminazione di quanta più materia organica possibile, così come si era soliti fare con le personalità di alto rango. Secondo la fonte richiamata dal Policastro e accuratamente riportata da Santi Maria Randazzo, il cuore del re nonché, riterrei a questo punto, anche gli altri organi interni sarebbero stati sepolti all’interno della chiesa, con i Cavalieri Gerosolimitani di guardia.

 

Ma dove morì Federico III? Dove si trovava esattamente, tra Paternò e Catania, il convento dei Cavalieri di San Giovanni in cui fu portato?

Tradizione vuole che si trovasse a poche centinaia di metri dal Castello Normanno di Paternò, forse dov’è l’odierno Vicolo San Giovanni, al centro della città.

L’ipotesi, ribadisco molto ben documentata, proposta dal Randazzo, invece, sembra davvero … scombinare le carte in tavola!

Contrariamente a quanto vorrebbe la tradizione, infatti, vi sono testimonianze storiografiche ben diverse.

Jerónimo de Zurita y Castro, storico spagnolo vissuto nel sedicesimo secolo, afferma che Federico III, vecchio e malato di gotta, morì durante il viaggio da Paternò a Catania, in una chiesa dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme.

Come riferito sempre dal Randazzo, analoga versione dei fatti viene fornita, tra gli altri, anche dallo storico polizzano Giovanni Battista Caruso, vissuto a cavallo tra diciassettesimo e diciottesimo secolo; dal professor Antonino De Stefano, grande medievalista, docente di Storia Medioevale presso l’Università di Bologna prima e, dal 1936 al 1956, a Palermo; dal professor Salvatore Fodale, professore emerito di Storia Medievale e componente del Consiglio Direttivo dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, il quale sostiene che Federico III non morì a Paternò, ma in un sito vicino Catania; dallo stesso professore Corrado Mirto, della cui personale amicizia e reciproci affetto e stima sono stato onorato, forse il più grande e, nel contempo, umile esperto di Storia medioevale siciliana.

 

Il Randazzo ritiene verosimile, pertanto, che il convento dei Cavalieri di San Giovanni in cui Federico III spirò altro non fosse che la Chiesa di San Giovanni Gerosolimitano, in quella che è oggi la Contrada Mezzocampo, o della Nunziatella, in territorio di Misterbianco, successivamente chiamata Chiesa di Santa Maria della Nunciata.

Il sito, adibito oggi a ovile e ubicato 500 metri circa a nord-est di Poggio Cardillo, è praticamente costeggiato dalla rampa stradale che, dalla tangenziale di Catania, rappresenta l’uscita per Misterbianco, provenendo da Ragusa.

Come documentato dal Randazzo anche con riproduzioni fotografiche di dettaglio, sono tuttora visibili i resti di strutture murarie con archi in serie, che richiamano l’architettura delle chiese paleocristiane siciliane edificate tra il quarto e il sesto secolo.

 

Non saprei dire di quanto l’ipotesi proposta dal Randazzo sia più verosimile e documentata rispetto a quella tradizionalmente accettata, che vorrebbe il convento dei Cavalieri di San Giovanni dentro Paternò.

Fatto sta che, d’ora in poi, recandomi spesso a Misterbianco, città d’origine di mia moglie Katiuscia, quando imboccherò la rampa d’uscita, guarderò con rispetto e reverenza quei luoghi, dove davvero potrebbe essere morto il mio Re! (https://sikeloi.net/monografie/il-mio-re/)

 

A N T U D U !

(alla siciliana, come mi hanno insegnato Pippo Scianò e Corrado Mirto, con la U finale al posto della O, espressione formalmente inesatta ma più vera e vicina al modo di esprimersi di un popolo fiero nei secoli, ma forse un po’ digiuno di Latino!)

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