“Anna Karenina ” apre la stagione 2023-2024 del Teatro Stabile di Catania: “bisogna cercare l’oblio nel sogno della vita”

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“Anna Karenina ” apre la stagione 2023-2024 del Teatro Stabile di Catania: “bisogna cercare l’oblio nel sogno della vita”

Così riflette Stepàn Arkàdjevic detto Stìva (Stefano Santospago), rammaricandosi del suo stupido sorriso che non aveva saputo opporre alla moglie Dolly (Bebora Bernardi) schermo alcuno ad un – ahìme – accidentalmente constatato tradimento…

Palcolscenico diviso in tre navate, tre porte, due sormontate da ringhiere che lateralmente colmano l’altezza di quella centrale: nell’assenza di illuminazione, esse sono porticati solenni, quando la “luce si fa strada” dalle sorgenti con maestria scelte dalla scenografa e costumista Marta Crisolini Malatesta, si trasformano in grandi finestre o porte, interne o esterne dei palazzi di Mosca e San Pietroburgo. Tracciano lo spazio e classificano le età delle emozioni dell’esistenza: gli inizi esplosivi, il divenire carico di attese e gli epiloghi…diversi. Il velario rende rarefatta l’atmosfera al di là dell’occhio dello spettatore e lo sorprende essendo ad un tratto adoperato come grande schermo di proiezione perché la narrativa si arricchisca di linee espressive cinematografiche, così come un tempo i libri venivano corredati dalle illustrazioni delle scene più significative.

Anna Karenina di Lev Tostoj adattato da Luca De Fusco e Giarri Garrera, traducendo in dialoghi gran parte dei pensieri che i protagonisti fanno in pectore, e in originale lettura la narrativa del romanzo. E’ l’opera pubblicata a puntate nel 1875 sul Messaggero Russo a trovare autorevolmente posto in questa traduzione per il teatro, sono le sue indiscusse qualità psicologiche familiari, – quando ancora la psicoanalisi non si era affacciata determinando la terza rivoluzione scientifica -, ad emergere fluidamente e coinvolgere la platea nutrita finalmente da sentimenti veri, tangibili, oggi che tutto si riscrive durante il folle giro delle condivisioni, smarrendo il senso di appartenenza al pensiero coerente. Andare a vedere questa pregevole versione dell’Anna Karenina è come alzarsi dal divano per scegliere dalla libreria un libro da leggere per trascorrere la serata lontano dal clamore, per offrire a se stessi una pausa di quieta riflessione.

Si è bisbigliato molto sull’ allestimento, sebbene poco sia riuscito a trapelare, così l’impatto è stato una sorpresa, una immersione vecchio stile: forse per la magnificenza delle scenografie, per il nutrito e preparato gruppo di attori, per i costumi ricercati e rifiniti, lo studio di luci che percorrono gli stati d’animo seguendo gli eventi e la recitazione. Esiste qualcosa di nostalgico ripescato dal bisogno di realizzare in teatro un progetto degno dell’opera adattata, in cui non vengono temuti i coraggiosi azzardi. La scenografia  si prende tutto lo spazio azzerando altezza e quinte a favore della profondità; riuscitissimo, a mio vedere, lo studio della compatibilità dell’inclinazione del piano per rendere più ampia la scena, le cui geometrie ricalcolate dallo studio delle luci (straordinario!) disegnano per ciascuna circostanza, personaggio o gruppi, spazi che esprimono, avvolgono e assorbono: le strade, i binari e la stazione per Anna; le sale delle loro ricche dimore per Dolly, Ketty e per Levin; il maneggio per Vronsky, il pregiudizio inconscio per Karenin, il muto rimprovero sociale verso Anna.

E un libro lo spettatore riscontra qua e là, fra le mani degli attori…

Dostoevskij rimproverava a Lev Tolstoj  “di raccontar di signorine, buoni sentimenti ed ambienti eleganti“, mentre lui parlava di giocatori d’azzardo, ubriaconi, criminali, donne di malaffare e di ambienti infimi. Entrambi credevano nella figura di Gesù Cristo in cui il primo trovava redenzione, ma che Tolstoj temeva perché temeva la morte e non sapeva spiegarsi l’aldilà, ne seguiva la traccia come un cane segue un odore, con accanimento trovando in essa  la conclusione di ciascun patimento a cui rimedio in vita non aveva saputo trovare. Dostoevskij, sperimentando il bene ed il male, invece confidava nella grazia del perdono.

Tolstoj aveva origini nobili, e quando i suoi genitori morendo precocemente lo lasciarono orfano, venne cresciuto dalle zie che ne curarono l’istruzione con molta attenzione; egli non si laureò mai, ma la sua preparazione oscillava dallo studio dei letterati e filosofi suoi predecessori a quello degli esponenti della letteratura e del pensiero filosofico dell’Europa occidentale. Essendo cresciuto in campagna, (la madre possedeva un meleto da qualche anno recuperato da agronomi italiani della Val di Non) aveva fatto esperienza della vita prossima alla disumanità che conducevano i contadini a cui cercò di dare per tutta la vita voce e diritti. Al punto che, già ottantenne, litigò con la moglie ed i figli perché desiderava sbarazzarsi di tutti i suoi averi e rinunciare ai diritti sulle proprie opere.

Sebbene “I Racconti di Sebastopoli”, “Guerra e Pace” avessero accresciuto la fama di Tolstoj, “Anna Karenina” è considerato il suo grande ed intramontabile capolavoro, collocandolo nel suo secolo, insieme alla britannica Emily Bronte (Cime Tempestose, 1847), il francese Gustave Flaubert (Madame Bovary, 1856) e all’americana Edith Warthon (L’Età dell’Innocenza, 1920), come uno dei maggiori romanzieri del romanticismo realista e naturalista. Romanzi in cui l’amore disperato domina i sentimenti, e l’animo femminile viene indagato abbandonando i tradizionali languidi registri: la donna si affranca dall’obbligo di dedicarsi esclusivamente alla famiglia, dall’ostentazione necessaria per il buon costume sociale; ma nel capovolgere l’ineluttabilità dei ministeri riconosciuti come indispensabili, sarà costretta a risolvere il proprio coraggio in un gesto tragicamente risolutivo e comunque nell’oblio, nella malattia dell’anima.

Facile far leva sulle passioni, narrare di Anna Karenina come un’adultera impenitente e chiuderla lì. Nella versione di De Fusco e Garrera ciò non accade: ogni personaggio è uno sviluppo attento delle proprie emozioni veicolate dalla propria educazione e la cura nel dipingere i chiaroscuri caratteriali rende in ogni tempo l’immortalità delle passioni:

Dolly/Debora Bernardi, recupera dalla stanchezza della vita matrimoniale un ulteriore slancio affermando con veemenza il diritto a non subire l’offesa del tradimento e così si apre la scena iniziale. Debora Bernardi, in un magnifico abito rosso scuro, rifinito nei dettagli, (come tutti i costumi, del resto), vibra con la sua bella voce in ogni corda del personaggio che interpreta con tanta dedizione: l’offesa impossibile da perdonare, il ragionamento a ritroso sul legame col marito, infine il perdono che non paleserà mai rassegnazione, ma che remissivo sarà.

Stìva/Stefano Santospago è il marito da rotocalco, conciliante con la moglie Dolly al fine di essere da questa lasciato libero di esprimersi in giro come la leggerezza del  carattere suo gli comanda, ben lieto infine di tornare a casa e trovare la famiglia affiatata che gli si stringe attorno. Stefano Santospago possiede un talento degno di una menzione adatta, ovvero quello di adoperare la mimica facciale mantenendo inalterata l’espressione degli occhi. Anche Stiva è ben scelto per lui, come Dolly per Debora Bernardi.

Levin /Francesco Biscione, mite e sognatore, auspica una esistenza quieta e pacifica accanto a Kitty, sorella di Dolly. L’attore è bravo a districarsi rendendo efficacemente un altro tipo di marito, ossia quello che sa attendere, superare con pazienza le crisi, non palesare il disinganno quando Kitty si plasma da sé, abbandonando i giovanili vezzi che tanto a lui erano piaciuti.

Kitty/Mersila Sokoli, riesce a rendere appieno il gioco speculativo del suo personaggio che teme lo stato di zitella, ma non disdegna la consapevolezza dell’onestà intellettuale di Levin, tanto diverso da Vronsky, leggero e inadatto ai legami.

Vronskij/Giacinto Palmarin, l’unico che sulle prime mi ha lasciato perplessa, ma rileggendo alcuni passaggi del libro, l’attore riesce a catturare bene le linee guida del personaggio.

Karenin/Paolo Serra, qui l’attore non ha compito facile (ma ci riesce assai bene) perché rendere credibile Karenin significa dargli innumerevoli variabili, tutte quelle che occorrono affinché venga irrobustita la facciata istituzionale, scivolare non visto da se stesso medesimo verso l’amore e la pietà per la consorte; ricacciarsi nuovamente dentro la guaina finta ed immobile del perbenismo sociale.

Betsy (Giovanna Mangiù) e Lidija (Irene Tetto), brave ed intonate: appaiono dal buio delle balconate come coro e lettrici, per ricomparire giù come nobili amicizie di famiglia.

Anna Karenina/Galatea Ranzi...per ultima ma non ultima…. Lei è la sagoma esatta di Anna Karenina: come lei possiede classe ed un fascino estraneo e magnetico dal quale l’attrice riesce a fessurare debolezze e timori di cattivi presagi, abbandonarsi alla passione incardinando sull’anima il trasporto fisico ed il bisogno inconscio di avere accanto continuamente la persona amata. E quanto è brava a mormorare fra sé il dubbio, a farne vibrare l’esile figura! Galatea Ranzi, colta in tv e al cinema in ruoli diversi, è sul palcoscenico a proprio agio, ospite garbata degli spettatori in platea ammirati. E il compito non è affatto semplice sino alla fine, perché il doppio dell’anima sua i registi scelgono di farglielo trovare sul velario con un impegnativo lavoro di doppiaggio di se stessa nella versione cinematografica.

Una versione importante, scelte audaci, azzeccate: un romanzo che ricorda per due ore e più di essere un libro, con spiccate propensioni verso il palcoscenico e fughe verso il cinema.

Se ci fosse una paletta da alzare con un voto, semmai ciò fosse importante, per me sarebbe 10&lode.

ANNA KARENINA

di Lev Tolstoj

adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco

regia Luca De Fusco

scene e costumi Marta Crisolini Malatesta

luci Gigi Saccomandi

musiche Ran Bagno

coreografie Alessandra Panzavolta

proiezioni Alessandro Papa

foto di Antonio Parrinello

aiuto regia Lucia Rocco

con Galatea Ranzi (Anna Karenina)

e con (in o. a.)  Debora Bernardi (Dolly), Francesco Biscione (Levin), Giovanna Mangiù (Betsy), Giacinto Palmarini (Vronskij), Stefano Santospago (Oblonskij), Paolo Serra (Karenin), Mersila Sokoli (Kitty), Irene Tetto (Lidija).

Produzione Teatro Stabile di Catania/Teatro Biondo Stabile di Palermo

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