Angelo D’Agosta, “Ulisse all’Inferno”, dal X e XI libro dell’Odissea alle cantine del Monastero dei Benedettini

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Angelo D’Agosta, “Ulisse all’Inferno”, dal X e XI libro dell’Odissea alle cantine del Monastero dei Benedettini

Che poi non è solo la questione che le antiche gesta si ricompongano con nuovo vigore in un ambiente che sopra possiede la luce del giorno e della notte orientata sulle facciate barocche del Monastero e sotto dispone del quieto silenzio di spazi sottomessi e recuperati dall’entusiasmo e dall’amore degli uomini (nella fattispecie, “Officine Culturali”): il fatto cruciale appare subito essere l’armonia fra l’uomo e l’ambiente, la naturalezza con cui Angelo D’Agosta si muova fra le mura di questo luogo magico, egli stesso “Virgilio” del Monastero che fu rifugio nella preghiera. Costruito in posizione collinare affinché mantenesse l’atteggiamento di vigile preminenza, riscritto strutturalmente dopo l’eruzione ed il terremoto, ma sempre conservando il mistero della luce e del buio, la connessione fra il mondo di sopra e di sotto che ci fanno sospettare come di un fragile diaframma fra l’uno e l’altro che controlla il respiro fra le cose del presente e i fatti della vita che fu..

Angelo D’Agosta, inquilino discreto, allestitore riverente (al Monastero, ha già realizzato con Pamela Toscano “Mille miglia” e a San Nicolò l ‘Arena, “Solo Andata”) è questa volta cantastorie di Ulisse protagonista del decimo ed undicesimo libro dell‘Odissea e, con l’arte che governa la sua formazione, indugia solo a tratti in una licenza creativa che avvicina al pubblico i fatti ed i personaggi di remota reminiscenza.

Giunge su un monopattino di legno, arrangiato artigianalmente e decorato con i colori della nostra terra, lo abbandona e ci introduce narrando di Circe, i suoi dispetti d’amore, il consiglio ad Ulisse di approssimarsi ai Cimmerj e dunque agli Inferi. E il pubblico gli è vicino, lo segue trasportato dal ritmico suono del tamburo djembe nei luoghi delle cantine del monastero, distraendosi per brevi istanti ad osservare i pavimenti delle domus romane, le pareti di lava, i lacus vinari … L’attore agilmente si destreggia in quei luoghi, trasferisce il proprio respiro, lo anima dei movimenti in cui include tutti i personaggi che narra e che sarà. Dunque è Ulisse, un uomo in difficoltà, responsabile dei suoi marinai che vorrebbe riportare ad Itaca sani e salvi: ne ha appena perso uno, Testa di legno, caduto ubriaco dal tetto della casa sull’isola di Circe. Cerca nell’Ade Tiresia (“il più grande spoileratore della storia”) affinché questi possa dargli indirizzo per la ripresa del suo viaggio di ritorno.

E l’uomo ormai trapassato ma che ha conservato le arti divinatorie, lo indirizzerà anticipandogli un futuro complicato nel quale dovrà dimenarsi per ribaltare le prepotenze subite da Telemaco e da Penelope: “Farai giustizia di lor tracotanza…“. Il viaggio prosegue, l’attore con lo spettatore, personaggio anch’egli, spostato in una dimensione che è viva, reale, lo comprende ma che è racconto di cose che hanno avuto luogo in un tempo precedente. Dunque, è magia la sensazione di esserci ed al tempo stesso di essere stato? I cunicoli, i corridoi si approcciano all’improvviso ad uno spazio ampio (la Sala Rossa di Antonino Leonardi), primitivo palcoscenico su cui sovrasta un tetto di ferro color rosso: l’attore indossando una maschera (creata con l’aiuto di Morgana Marchesi della Escuela de Titiriteros del Teatro San Martin di Buenos Aires), affrontando nella postura il peso dell’età che curva le spalle e corrispondendo perfettamente i movimenti di un ipovedente, è l’indovino della mitologia greca; avviando un carillon e agitando con due bacchette in un balletto aereo un tulle bianco, è adesso Anticlea, la madre dell’Odisseo, la cui morte era a lui sconosciuta.

L’attore muta a nuove posture e registri vocali dando vita ad Achille e prima ad Elpenore che Ulisse incontra a vagare e che gli chiede una promessa: dargli sepoltura, lì ad Eea, l’isola della maga che li aveva a lungo ospitati e dove banalmente il marinaio aveva perduto la vita. Dopo “esser preso da timore ritorna presto alla nave” e manterrà la promessa all’ uomo del suo equipaggio, denominato “testa di legno”.

E l’attore da lì in poi guiderà il pubblico nella risalita dagli inferi, dalla pancia del magnifico edificio, generando lungo il corridoio, di rossa luce riverberato, l’innocuo sospetto che la morte è solo tradursi nella stanza accanto…

Angelo D’Agosta è un attore giovane che possiede un grande amore nei confronti dei classici reputandoli sempre allusivi rispetto alle verità universali. Inoltre, presta particolare attenzione allo studio della parola e del gesto di cui ne abusa insieme quando necessario, ne sottrae l’una all’altro e viceversa con oculatezza. La risposta è quella di una recitazione asciutta e coerente che giunge sincera allo spettatore senza alzare barricate di superiorità attoriale; al Monastero dei Benedettini, insieme ai membri che costituiscono le Officine Culturali che da qualche tempo producono anche i suoi lavori, Angelo D’Agosta sta portando avanti un lavoro che definisco prezioso in ordine alla proposta di consegna di un bene così importante per la città di Catania. Un luogo in cui il termine “bellezza” è abusato in ogni minimo ed insospettato dettaglio.

“Abbiate rispetto dei giullari, dei teatranti e degli attori, perché essi sanno narrare la bellezza della vita”. A.D.A.

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