L’Imago Rapisardii di Antonella Sturiale al Teatro Tezzano a Catania

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L’Imago Rapisardii di Antonella Sturiale al Teatro Tezzano a Catania

 

Mario Rapisardi sapeva di essere un Bastian contrario, sapeva che aveva tanti detrattori e, in cuor suo, non se ne crucciava poi tanto; ma non poteva certo immaginare che l’astio gli sarebbe sopravvissuto, che i tanti a cui piaceva l’arte sua sarebbero state sopraffatti dall’astio, dall’indifferenza, dall’oblio decretato da chi non lo stimava.

Per più di cento anni dopo la sua morte tutti lo hanno chiamato “Vate”, “Vate dell’Etna”, prima ancora dell’altro Vate, ben più famoso e ricolmo di riconoscimenti, che fu Gabriele D’Annuzio.

Fu un ossequio spesso formale, segnato dagli strali dei contemporanei Giosuè Carducci e, ancor più, Benedetto Croce, della Chiesa Cattolica che non gli perdonò mai di essere un Maestro Libero Muratore, del Fascismo che disprezzava la sua poetica socialisteggiante ed egalitaria e, in ultimo, dall’ingiuria del tempo che ne ha cancellato la memoria con l’eccezione dell’intitolazione di un Viale cittadino a Catania che la gente chiama sinteticamente “U viali”, senza aggiungere il nome perché è sottinteso che “U viali” è quello di Mario Rapisardi.

Ironia della sorte, né per il centenario della nascita, caduto in piena seconda guerra mondiale (1944) né quello della morte (2012) caduto in piena crisi economica della nazione e nell’ormai cronica decadenza morale della classe politica italiana, fu celebrato come si conviene ad un figlio glorioso della Città di Catania.

Passate queste boe temporali sul “Vate” è ripiombato l’oblio … fino all’altra sera al Teatro Tezzano, su iniziativa di Santo  Musumeci, un innamorato della propria città e delle sue tradizioni che ha curato l’organizzazione e di Antonella Sturiale, una prolifica, sensibile, squisita scrittrice che ha scritto il testo di un recital teatrale “In Verità e non in gloria, l’oblio del vate”, si è reso omaggio all’illustre concittadino.

Il recital è stato interpretato sulla scena da due validissimi attori Barbara Cracchiolo: elegante e impeccabile ed Enrico Pappalardo: passionale ed empatico che, per l’occasione, hanno curato anche la regia che è apparsa snella, viva, accattivante tale da tenere ferma l’attenzione del pubblico fino alla fine.

Il recital a due voci, ha ripercorso la vita personale e letteraria del Rapisardi, sottolineandone, in ogni pagina, la straordinaria originalità e genialità, talvolta riconosciuta e spesso misconosciuta, sempre consegnando all’ascoltatore la figura del Vate in una chiave epica, di eroe che oscilla tra l’incomprensione e l’Osanna.

Dal racconto degli attori, dalla lettura dei brani originali e da quelli prodotti dall’autrice, sono venuti fuori i sentimenti, i dolori e le gioie del Rapisardi che hanno affabulato il pubblico; svelando alcuni particolari sconosciuti ai più, come il fatto che, in effetti, egli si chiamasse Rapisarda e che cambiò, a mo’ di pseudonimo, la a finale in i del suo cognome per favorire l’assonanza col poeta che egli amava, Giacomo Leopardi.

Il testo della Sturiale è davvero, di per sé, un opera letteraria godibilissima che raggiunge l’acme con l’invenzione del dialogo tra Rapisardi e la moglie Giselda Foianesi nel momento in cui egli ne scopre l’illecita relazione con il suo carissimo amico Giovanni Verga.

Un dialogo che è rivelatore di molte cose. Un dialogo che vuole penetrare l’animo di Mario, che ci vuol mostrare come nonostante la ferita del tradimento, egli è “diverso” e in controtendenza anche in questa sconvolgente circostanza.

Tra le righe, tuttavia, traspare la sua “normalità” di uomo senza età e, al tempo stesso, di uomo del suo tempo; pronto a condannare senza comprendere, teso a svilire tanto il sentimento altrui, quanto il proprio e quello delle persone che lo hanno tradito: in una parola, ha la reazione ordinaria di uno che è stato tradito; senza aura di epicità, senza l’alloro della nobiltà d’animo, senza la “nobile diversità” che vorrebbe rappresentare.

Di contro Giselda, pervasa dal senso di colpa, non riesce a difendersi dagli attacchi nichilisti del Vate e continua a ripetere come un mantra: “Io lo amo”, “Io amo Giovanni”, “ma io lo amo” e in questa ripetizione irragionevole, ossessiva sta tutta la “bellezza” del suo sentimento, la bellezza del desiderio che é necessità di violare la propria integrità che comporta la comprensione e la fascinazione della propria follia, e che può avvenire solo grazie a chi è in grado di svelarcela.

Attraverso la voce, il volto, il dolore e la professionalità di Barbara Cracchiolo, Giselda contrappone la propria innocente follia alla istituzionale razionalità del marito.

La forza della Verità contro la menzogna della Gloria, verrebbe da dire, con le stesse parole del vate: “… e ho detto tutto!“ come disse Peppino De Filippo a Totò in una memorabile scena del film “Totò Peppino e la malafemmina”!

Giselda, in superficie fedifraga, nel profondo proclama la propria dignità di persona, la propria libertà d’essere com’è e come vuole essere, incurante del domani perché la vita è oggi non ieri né domani, incurante del giudizio della gente perché quando la gente ha detto, nello stesso momento, ha finito di dire.

Un dialogo insomma, in cui Giselda è più Mario di Mario: rivoluzionaria come solo l’Amore può esserlo.

Eh sì. Questo dialogo ha una marcia in più, non l’ha proprio scritto Mario, è stato scritto da una donna!

Il recital prosegue con innesti filmati, il canto finale di una rock band catanese i Frijda dedicato al vate e una graziosa performance di danza moderna offerta dalla versatile e davvero brava Barbara Cracchiolo fino all’invito finale del sanguigno Rapisardi/Enrico Pappalardo a non essere dimenticato: è proprio questo il telos del recital, cercare di capire perché Mario Rapisardi scompare dai radar del mondo culturale italiano; e se ne individua la causa nella cattiveria e nella colpevole disattenzione tanto dei contemporanei quanto dei posteri.

A noi pare che questa spiegazione sia solo una parte, e di gran lunga la meno consistente, della verità sull’oblio del Vate etneo.

Le cause che hanno obliato il poeta Rapisardi vanno piuttosto ricercate nella qualità della sua poetica, nella tecnica della sua drammatizzazione, nell’eloquio, nella sua personalità e … nell’irresistibile forza dei giganti che l’hanno contrastato.

Proviamo, in una estrema sintesi, a darne un quadro sia pure approssimativo.

E’ fuor di dubbio che l’opera letteraria di Rapisardi costituisce l’ultimo epigono della grande retorica classicista di Vincenzo Monti, già vecchia nel 1859 anno del primo componimento di Rapisardi, l’Ode a Sant’Agata.

Essa è informata alla moda filosofica positivista e goethiana del tempo ed è influenzata dalla scuola parnassiana di Laconte de Lisle, ciò favorì la sua inclinazione estetizzante e perciò stesso a limitare il significato della sua polemica sociale, che tanto gli nocque “a sinistra”.

Rileggendo con attenzione l’intera produzione letteraria di Rapisardi, non del tutto campati in aria appaiono i sarcasmi di Carducci e, più tardi, la caustica irrisione di Croce per il suo abito letterario demodè  a cui nocquero in egual misura la facilità del versificare e la mai attenuata enfasi.

Bisogna anche lealmente ammettere che spesso i suoi poemi sono farraginosi e magniloquenti nel loro messianismo con un’ansia dimostrativa dell’avanzamento “fatale” del progresso che, se alimentava la speranza dei progressisti, lo esponeva al dileggio dei conservatori.

Materialmente, come oggi – orrendamente – si direbbe,  e facendo ricorso a un slogan degno di Twitter, possiamo dire che i temi ch’egli propugnava furono obliati dallo stravolgimento prodotto dall’irrompere nella storia e nella società italiana dalla prima guerra mondiale e, principalmente, dal suo linguaggio, dal suo eloquio che era oramai lontano dal sentimento popolare e letterario in continua evoluzione.

In ogni caso, incrollabile e illuminante giganteggia su Catania e i catanesi il personaggio Rapisardi, ribelle e rivoluzionario ma con moderazione, sempre impegnato ad elevare templi alla Virtù e a scavare oscure e profonde prigioni al vizio; a lavorare – da buon massone – per il Bene e il Progresso dell’Umanità.

In fondo e in superficie è proprio questa l’immagine del Vate Etneo che Antonella consegna ai suoi lettori e ai suoi spettatori.

 

 

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