Le sedie di Ionesco nell’interpretazione di Mario Sorbello

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Le sedie di Ionesco nell’interpretazione di Mario Sorbello

Non è frequente, soprattutto a Catania, di assistere a una piecès di Eugene Ionesco perciò quando accade la gente affolla le sale, come è successo al Teatro Fellini l’altra sera dove Mario Sorbello, Maria Luisa Lombardo per la regia di Antonio Denovo hanno rappresentato “Le sedie”, la “farsa tragica” che Ionesco rappresentò per la prima volta settanta anni (Parigi,1952).

La trama è presto detta: in un faro abbandonato, su un’isola circondata dal mare, una coppia di vecchi coniugi (Mario Sorbello e Maria Luisa Lombardo) attendono gli ospiti per una conferenza tenuta da un Oratore Professionista (Egidio Pollicina), al quale il Vecchio ha affidato il compito di trasmettere il suo messaggio fondamentale per l’umanità.

Un bel pezzo di teatro che a 70  anni dal suo debutto continua a parlare al pubblico, rivelando la piccola realtà dei due anziani coniugi, costellata di illusioni, fallimenti e figure inesistenti, mentre su di loro incombe un imponente “totem” di sedie/persone che occupano il palcoscenico, la mente e l’anima.

Una farsa tragica i cui tratti assurdi si dissolvono in un silenzio assordante carico di parole, che progressivamente perdono forza e significato.

Con qualche espediente (i costumi dei due protagonisti e il pesante trucco sui loro volti di pupazzi arresi all’umanità), si riesce a fare di questo testo una storia di struggente tenerezza alquanto insolita per un Teatro – cosiddetto – dell’assurdo.

Fin dal primo, lento ingresso in scena i due protagonisti trasmettono una rassicurante e poetica tenerezza, che raggiunge il culmine non tanto nelle parole, quanto nei gesti e negli sguardi, che si scambiano i due coniugi.

Il legame tra Lui e Lei – da Lui chiamata Semiramide, con evidente riferimento all’opera di Rossini – è ormai cristallizzato e aiuta a sopportare frustrazioni e angosce di una vita trascorsa senza che nulla accada realmente.

La vicenda ha un finale tragico, carico di Angoscia, ma soprattutto di Speranza con il disperato grido di entrambi i coniugi che sembra riecheggiare quello virgiliano: Amor vincit omnia et nos cedamus amori.

E’ l’Amore che li salverà, salverà l’Umanità, se non in questa vita in un’altra.

“Cerchiamo di essere uniti nel tempo e nell’eternità anche se non possiamo esserlo nello spazio, come lo fummo nelle avversità” è il testamento che il vecchio sposo consegna all’Oratore perché ne diffonda il messaggio urbi te orbi, come fosse un pontefice.

Opera carica di parole e stracarica di sentimenti, resi in maniera impeccabile e credibile dal Sorbello e dalla Lombardo, e finanche dall’Oratore, in un finale a sorpresa al quale si potrà ancora assistere perché si replica il 5 Gennaio del prossimo anno.

 

 

 

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