“Sogno di una notte a Bicocca” di Francesca Ferro al Teatro Angelo Musco per la rassegna 2023-2024 dell’ABC: la libertà di sognare di poter andare oltre…

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“Sogno di una notte a Bicocca” di Francesca Ferro al Teatro Angelo Musco per la rassegna 2023-2024 dell’ABC: la libertà di sognare di poter andare oltre…

Scritto e diretto da Francesca Ferro“Sogno di una notte a Bicocca” è interpretato da una eccellente squadra di undici bravissimi attori: Giovanni Arezzo, Francesco Maria Attardi, Giuseppe Brancato, Dany Break, Franz Cantalupo, la stessa Francesca Ferro, Giovanni Maugeri, Antonio Marino, Mario Opinato, Salvo Saitta e Renny Zapato. Direttore di scena, Franco Sardo; aiuto regista, Maria Chiara Pappalardo; tecnico d’allestimento, Massimo Di Stefano. Prodotto dall’associazione culturale Progetto Teatrando. Foto di Christian Costantino.

Da un’idea nata a seguito di una esperienza personale vissuta dalla stessa autrice e regista nel 2012, un anno prima della famosa Sentenza Torreggiani, quella a seguito della quale l’Italia venne condannata dalla Giustizia Europea per le condizioni di detenzione che non salvaguardavano diritti e libertà fondamentali della persona. Nel 2012 dicevamo, Francesca Ferro lavora ad un progetto presso il carcere di Piazza Lanza, ovvero portare il teatro fra i detenuti, realizzando un vero e proprio casting. Sceglie una commedia di Shakespeare fra le più riprodotte al mondo, “Sogno di una notte di mezz’estate”, e prepara da attori venti detenuti per reati diversi. Sebbene inizialmente sia preoccupata a svincolarsi dalle incognite che potrebbero presentarsi avendo a che fare con persone distanti da quelle in linea di massima frequentate, di settimana in settimana riesce a ottenere la loro fiducia, prestandosi all’ascolto, accantonando i timori. Si rende conto che non c’è spazio per una retorica spicciola, che quello è un altro mondo davvero, in collegamento con l’esterno ma un’ altra dimensione. Guardare ad esso soltanto facendosi influenzare dalla considerazione che tutto ciò che all’interno accade è conseguenza di quello che fuori é stato commesso, non l’avrebbe aiutata a capire: è meglio porsi come una moderna Dante che viaggia fra le sorti toccate alle persone per mano propria, che ha incontrato e conosciuto, dunque constatando senza giudicare poiché esse già lo sono state. Resasi conto del contributo personale che ogni detenuto poteva apportare al quadro d’insieme, facendoli parlare con il proprio vocabolario e adattare fattispecie ed esperienze diverse ma somiglianti a quelle della commedia, si rende conto di avere una chiave con la quale può decodificare i messaggi ed i segnali di ciascuno incoraggiandoli a dare il meglio come attore: e nasce “Sogno di una notte a Bicocca”.

“Sogno di una notte a Bicocca”, perché volevo dare giusta eco alle emozioni fortissime che ho provato in quel periodo, durante una delle esperienze di lavoro che è ancora oggi una delle più belle di tutta la mia carriera.” (F.F.)

“Sogno di una notte a Bicocca” è uno spettacolo che gira dal gennaio del 2018, quando esordì al Centro Zo in una versione che vedeva la partecipazione dell’indimenticabile Ileana Rigano nelle vesti della direttrice del carcere, ruolo che la regista ha preferito sopprimere, palesandolo in una ironica citazione di uno degli attori. Secondo appuntamento della rassegna 2023-2024 del Teatro Angelo Musco (precedente, Il marchese di Ruvolito e il prossimo, La Famiglia quasi perfetta), l’allestimento ha subito alcune modifiche, riconoscendo maggiore spazio alla commedia nella commedia.

Rispettato l’equilibrio del susseguirsi delle emozioni: si ride per i goffi errori di pronuncia degli improvvisati attori, per i dialoghi storpiati, per le proteste e le esuberanze di alcuni di loro; si avverte l’importanza della educazione alla bellezza, alla cura del dettaglio. Persone a cui sono mancati gli indirizzi culturali, che verificano attraverso quella esperienza, fino a prima ignota, l’esistenza di un altro modo di guardare alle cose oltre le sbarre delle proprie celle. E non nella finzione scenica, che altro non ha fatto che trasferire il palcoscenico del teatro del carcere al palcoscenico di un altro teatro. La verità oggettiva e davvero convincente di questo bellissimo lavoro è quella che non si cerca di fare proseliti per esaltarne il lato incompiuto chiedendo risposte, ma piuttosto chiedendo l’ascolto. Il carcere in fondo nell’ idea di ognuno è quell’ambito sociale affrancato dalla corrente società, in cui vengono collocate persone che hanno commesso degli illeciti e disinteressarsene nella consapevolezza che stanno dove stanno perché lo hanno meritato, è l’atteggiamento maggiormente prevalente. Poiché, lì si deve stare e sopravvivere, e da lì si può uscire, l’educazione dovrebbe essere fortemente contemplata, laddove è possibile: sulla pagina istituzionale del Ministero della Giustizia si pone ampio riguardo ai laboratori, alle iniziative teatrali, agli spettacoli e alla specializzazione degli ambienti carcerari per accogliere gli spettatori, relativizzando un’attività parecchio implementata negli ultimi dieci anni.

Nella realtà i detenuti erano venti, sul palcoscenico, dieci attori, ciascuno sotto la luce dei riflettori col suo pezzo di storia:

Giovanni Arezzo è “Provola”, giovane detenuto che assume in sé e nella sua lunga condanna la conseguenza della insufficiente attenzione familiare, della vita ai margini di un contesto dove può diventare riferimento iconico un soggetto estraneo e a sua volta svincolato da valori di tutela. L’attore, bravissimo nel ricreare l’esatta natura del personaggio che ricopre, riesce a fare arrivare al pubblico la verità su chi è e cosa ha fatto, senza enfasi, ma con emozione per una constatazione che il pubblico riesce a fare, attenzione, non dalla sua poltrona, ma oltrepassando le sbarre. “Provola” riesce a far sparire l’ovvietà del giudizio vergognandosi profondamente perché il suo è stato un errore che lo perseguiterà sempre: innumerevoli le sfumature delle sue espressioni, il sorriso bambino, smorzato dall’ossessione della colpa.

Francesco Maria Attardi, Polifemo: spavaldo, fumantino, nessuna teatralità, ma con arte solo la definizione di un tratto. E il personaggio si realizza, verosimile e autentico;

Giuseppe Brancato, “U’ Babbu”, attore che riesce ad essere un condensato di ironia e tenerezza, bravo a suscitare il dubbio se uno così possa nascondere un lato oscuro che lo incoraggi verso il male o se nell’errore è caduto appunto perché “babbu”;

Dany Break, “Ivan Petrov ucraino”, talentuoso cantante e ballerino, il personaggio è inserito con metodo nel contesto del gruppo, “sfruttato” bene per le proprie capacità;

Franz Cantalupo, “o’ Capitone”: nelle precedenti versioni, personaggio interpretato da Silvio Laviano, è qui ricalcato come ruolo ma espresso con approccio personale dall’attore, amabile interprete di momenti forti e come la regista anch’egli attivo nei laboratori nelle carceri;

Giovanni Maugeri, “Ciccio Boutique”, è a lui affidato un ruolo che lo configura nel grave reato della ritorsione nei confronti dei negozianti: è ben sviluppato nell’immaginazione lasciata al pubblico perché il ruolo tradisce l’aspetto;

Antonio Marino, la guardia peniterziaria, interpretata in maniera convincente, senza eccessi né buonismi, al punto da suscitare il sospetto che l’attore faccia questo nella vita;

Mario Opinato, “Pippo Pacchio”: attore dotato di presenza scenica, é speso qui in maniera consona per il ruolo di “impresario” con connotazioni  ora buffe, ora pungenti;

Renny Zapato “Elvis”, fan di Elvis Presley (nella vita reale ama il rock and roll e da anni suona con la sua band, la “Zapato Small Combo”) è forse qui il più catanese fra tutti poichè riesce ad impersonare i tratti salienti di certi personaggi cult di quartieri della nostra città;

Salvo Saitta, “il Cardinale”: autorevole figura di riferimento all’interno del carcere, riveste, col garbo e l’attitudine che lo contraddistinguono come attore, un uomo che ha sbagliato nella vita e dunque punito per il suo errore che durante il giorno vive con indolente superiorità, ma che di notte, nell’angolo poco illuminato della propria cella, subisce allentando il freno della paura di apparire ciò che davvero è. La scena del rossetto, espressa da un attore maestro e di così lunga carriera, è struggente. Nella versione precedente, ricordiamo nel ruolo Agostino Zumbo.

Francesca Ferro nel ruolo di se stessa: è sempre un piacere guardarla. In questa esperienza esprime il lavoro di regista non solo per la preparazione della messa in scena nella realtà, ma anche della finzione dell’allestimento in carcere. E non fa confusione, non assume pose distaccate e posticce, ma si esprime con tutto un insieme di titubanze che man mano che l’approccio si consolida in relazione di lavoro diventa fiducia.

 

Le alte sbarre che circondano il palcoscenico per quattro lati sono immagine forte e cupa, idea concreta di mancanza di libertà, più severe dei muri, che tralci, fiori e luci sceniche per lo spazio di una commedia trasformano, aprendo un varco grazie alla fantasia. Appena si apre il sipario, lo spettatore sa dove sta, ha ben chiaro da quale parte è seduto; eppure, quella gabbia mi ha fatto pensare che al di qua ciascuno può avere comunque il suo carcere in cui sconta una penitenza, lunghe notti interminabili in cui rimugina il proprio rimorso…

Repliche da  venerdì 24 (ore 21), sabato 25 (ore 17.30 e 21),  a domenica 26 novembre (ore 18), al Teatro Angelo Musco di via Umberto a Catania.

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