Non credo che ci siano gesti più vili che quello di sfottere una persona con un incurabile tumore al quarto stadio, cioè consapevole di essere molto prossima alla morte, scrivendole un ironico «guarisci presto».
È quel che, alla scrittrice Michela Murgia, ha augurato l’ex senatore leghista ovvero l’ultra-conservatore ovvero l’organizzatore del family-day ovvero il neo-catecumeno ovvero il fervente cattolico ovvero Simone Pillon.
E ognuno, soprattutto chi con questo spregevole figuro condividerà una domenicale messa, tragga le sue considerazioni.
Ciò premesso, mi permetto, però, di riportare l’attenzione sulla vera notizia, che è il matrimonio di Michela Murgia o meglio il contenuto del pubblico messaggio con il quale lei lo ha annunciato:
«Se avessimo avuto un altro modo per garantirci i diritti a vicenda non saremmo mai ricorsi a uno strumento così patriarcale e limitato, che ci costringe a ridurre alla rappresentazione della coppia un’esperienza molto più ricca e forte, dove il numero 2 è il contrario di quello che siamo».
In sostanza, la scrittrice, ci dice che si spegnerà con “la fede al dito” per burocratica imposizione: perché è il solo parziale modo che il retrogrado diritto di famiglia italiano le consente per morire nella certezza che, pur con un trucco da azzeccagarbugli, le sue ultime volontà saranno rispettate.
E tutto questo non riconoscere la vita reale di Michela Murgia e di tante donne e di tanti uomini è, più che altro, disumano.
Dio Ti benedica, Michela, troverai Grazia presso il tuo Signore.
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