“M’arrivau ‘nda l’ugnu ro peri.”

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“M’arrivau ‘nda l’ugnu ro peri.”

“M’arrivau ‘nda l’ugnu ro peri.”

È stato questo il commento di una attempata signora mentre usciva dal Teatro Musco l’altra sera, dopo avere assistito alla commedia L’eredità dello zio canonico di Antonino Russo Giusti, per la regia di Antonello Capodici e affidata alla furia benemerita di quelli del Gatto Blu più qualche azzeccato innesto.

… e come darle torto! La bella espressione siculo-catanese vale un’intera recensione.

Esprime in maniera immaginifica e “terribilmente” efficace il concetto di piena, assoluta soddisfazione, che di più non si può, nemmeno col candeggio!

Detta locuzione, si usa in genere per indicare la bontà e l’abbondanza di una pietanza che è stata così gradita che, entrando nel corpo attraverso la bocca, per via della sue estrema squisitezza, non s’è fermata all’apparato digerente, ma ha proseguito il suo percorso benefico e ristoratore fino al ditone del piede (alluce, per i visi pallidi).

Ecco: sentiamo di esprimere pubblicamente alla garbata Signora tutta la nostra riconoscenza per averci tolto dall’imbarazzo di trovare idee, aggettivi, iperboli e quant’altro per rappresentare ai nostri lettori l’apprezzamento per l’allestimento di questo classico del teatro dialettale siciliano.

Come accade per tutti i classici, ogni capocomico, ogni regista ha aggiunto, sottratto e cambiato tante cose all’impianto drammaturgico dell’autore e, talvolta, in maniera felicissima: fa piacere, per l’appunto, ricordare ai nostri lettori che la celeberrima battuta del Cav. Favazza: “abbagnu?” davanti al notaio, fu aggiunta e “pompata” al massimo dal grande Angelo Musco!

Rielaborare e trasferire in tempi moderni i classici è sempre un rischio, ma quando si dispone di “genio e sregolatezza” ogni impresa è destinata al successo.

Così è stato per l’allegra banda del Gatto Blu capitanata da Gino Astorina, Luciano Messina e Francesca Agate cui si sono provvidamente aggiunti Carmela Buffa Calleo, Elisa Franco, Turi  Giordano, Plinio Milazzo, Alberto Abbadessa e Gianni Fontanarosa.

Lo spettacolo ha diversi pregi.

Il felice aggiornamento del testo, per esempio; la sua attenta contestualizzazione.

Il ritmo drammaturgico e recitativo, frutto certo della sapienza registica di Capodici, ma – crediamo – in gran parte – anche dell’esplosiva verve di una compagnia che ha fatto del ritmo e dell’improvvisazione, in questi ultimi trent’anni, la propria cifra stilistica.

Last but not least, la forza travolgente del “collettivo”!

L’impianto e il testo originari sono imperniati sul ruolo e sulla preminenza del Cavaliere Favazza, e storicamente così è stato rappresentato; ma nella riduzione che abbiamo visto, ogni personaggio ha avuto più d’un momento di centralità scenica e drammaturgica.

Gino Astorina e i suoi hanno saputo, per mestiere e volontà, caratterizzare ogni personaggio in maniera tale da renderlo protagonista della scena, nella parte assegnata; sicché s’è assistito ad un florilegio armonico e mai fastidioso, quand’anche ripetitivo, di gag e di battute che ha reso “satollo” lo spirito di ciascun spettatore.

Brillanti invenzioni sono state le contorsioni di Carmela Buffa Calleo sulla molle sedia Fantozziana; la procace, per mise e per eloquio, Elisa Franco nel ruolo dell’indimenticata “tigre” che fu Rosina Anselmi; U Nutaru Turi Giordano fedifrago impenitente; la bollente al limite della ninfomania Francesca Agate con la sua vittima Plinio Milazzo; un debole di curuzzu padrone di casa Luciano Messina e il borioso aspirante mafioso Alberto Abbadessa.

Non si può non menzionare per quello che un tempo si sarebbe chiamato il capocomico: Gino Astorina. Lui rifiuta con un gaudente sorriso questa etichetta e ci tiene a dire che è semplicemente un “artigiano fra artigiani”. E’ vero anche questo, ma non si può negare che il pubblico lo ha eletto a punta di diamante di questa compagnia stabile della risata sorniona e dissacrante che è il Gatto Blu.

Gino Astorina, rappresenta e si inserisce in quel filone di artisti e uomini di spettacolo che incarnano la “catanesità”, la cui lista e la cui memoria comincia a farsi davvero lunga: Nino Martoglio, Giovanni Grasso, Angelo Musco, Carlo Mangiù, Umberto Spadaro, Turi Pandolfini, Turi Ferro, Iano Iacobello, Gilbero Idonea, per citare chi non c’è più, ma anche Pippo Pattavina, Tuccio Musumeci, Salvo ed  Eduardo Saitta, Cosimo Coltraro, Enrico Guarneri e alcuni altri per rimanere tra i vivi.

Gino interpreta l’essere catanese nella forma autenticamente originale che ancora l’omologazione culturale mediatica non è riuscita a eradicare del tutto e che resiste anche grazie ad artisti come lui, che hanno fatto dell’essere catanese, non solo la loro cifra stilistica, ma anche la cornice dentro la quale godere di questo lampo di luce che è l’esistere.

Tornando allo spettacolo, un lisciabusso! Ci è mancata la battuta, forse anch’essa frutto di interpolazione, che il Cav. Favazza pronuncia dopo che lo zio canonico lo ha lasciato povero e pazzo: “Nutaaru! M’ha cririri. U ziu fiteva vivu, faceva nfetu ri buriddu comu ncani mottu”!

Ma questo è un antico ricordo di gioventù, di passate risate, di innocenti evasioni.

 

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