“Sogno di una notte a Bicocca”, progetto teatrale di Francesca Ferro

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“Sogno di una notte a Bicocca”, progetto teatrale di Francesca Ferro

Grande successo di “Sogno di una notte a Bicocca” scritto e diretto da Francesca Ferro con la collaborazione del compagno, l’attore Francesco Maria Attardi. Ospitato a Gennaio al Centro Zo, a grande richiesta lo spettacolo è stato replicato dal 21 al 24 febbraio per un totale di cinque spettacoli al Piccolo Teatro di Catania.
Sul palco, gli attori Ileana Rigano (la direttrice del Carcere), Agostino Zumbo (il “Cardinale”), Mario Opinato (“Pippo pacchio”), Silvio Laviano (“o’ Capitone”), Renny Zapato (“Elvis”), Giovanni Arezzo (“Provola”), Francesco Maria Attardi (“Polifemo”), Giovanni Maugeri (“Ciccio Boutique”), Vincenzo Ricca (“Obama”), Antonio Marino (la guardia), Dany Break (“Ivan Petrov Ucraino”) che insieme all’aiuto regia Mariachiara Pappalardo, con l’allestimento di Arsinoe Delacroix e all’assistenza alla regia di Verdiana Barbagallo, interpretano un gruppo di detenuti diretti da Francesca Ferro nel ruolo di se stessa.
La Ferro, nel 2012 con l’aiuto dei finanziamenti comunitari, aveva intrapreso un progetto per portare nei centri di reclusione il teatro allo scopo di contribuire al tentativo di affrancamento dalle fredde dinamiche carcerarie un gruppo di detenuti del carcere di Bicocca, portando in scena il “Sogno di una notte di mezz’estate” di William Shakespeare, opera comica dello scrittore inglese fra le più rappresentate e rielaborate. La storia fantastica incrociata col sogno e contenente un’altra rappresentazione, che si svolge nell’antica Grecia (ad Atene), con protagonisti Teseo ed Ippolita, Oberon e Titania, Lisandro, Demetrio, Elena, Ermia, Nick Bottom, Flute ed il folletto Puck. L’approccio con l’ambiente in un primo momento è disarmante ma la diffidenza del gruppo di detenuti, per reati che vanno dall’estorsione al traffico della prostituzione all’associazione mafiosa all’omicidio, non la distoglie dal suo proposito: grazie alla semplicità nel modo di porgere, alla comprensione delle gerarchie, dei meccanismi di rispetto e stima ricorrenti nel gruppo, riesce a farsi accettare non senza comunque incontrare difficoltà, soprattutto in ordine all’assegnazione dei ruoli femminili…: ”al tempo di Shakespeare, nel sedicesimo secolo, le donne non potevano salire sul palcoscenico, dunque le parti delle donne erano rivestite dagli uomini”…”Signorina Francesca, lei si è addunata che qua c’è uno sbaglio?…non è che qua dentro siamo tutti uguali!…”
Nel silenzio delle proprie celle, leggeranno i copioni, ripeteranno le parti, chiederanno alla guardia di aiutarli nel ripassare. Tutta la spavalderia delle adunate pubbliche, di notte diventa tentativo e remissione ad una possibilità…
L’opera di Shakespeare proposta a chi un sogno non ha più, come O’Capitone che sputa continuamente e inveisce contro la guardia e lo chiama ingiustamente “Ommo e’ mmerda!”- che coltiva dentro il suo cuore solo il desiderio di avere un po’ di acqua del suo mare; ruoli femminili a chi per conservare il ricordo della propria prestanza e fierezza, afferma con rudezza la propria mascolinità, temendone in fondo la concretezza, dopo tanti anni in un carcere senza vedere una donna…La solitudine della notte presa a calci durante il giorno…l’assenza di qualcosa che forse nessuno di loro ha mai avuto, come una carezza, o una mano sulla spalla, una semplice domanda si fa prepotente durante le ore lunghissime di buio; così ci si attacca a quel copione, leggendo e ripetendo. Francesca è naturale verso di loro, non emettendo giudizi, memmeno quando Provola le avrà raccontato il motivo per cui “per sbaglio, per un suo sbaglio” si trova in galera dall’età di 16 anni ed altrettanti ne deve scontare. Lei insegna loro a non farsi sopraffare da certi pregiudizi, a non aver paura delle parole, invitandoli a dare suggerimenti sulla improvvisazione, sulla rivisitazione dei personaggi. Allora, “Sogno di una notte di mezz’estate”, diventa “Sogno di una notte a Bicocca”, con dialoghi infarciti di dialetto, musiche new-melodiche e la storia nella storia che quattro personaggi provano nel bosco in onore alle nozze di Teseo (Mario Opinato) ed Ippolita (Agostino Zumbo) diventerà “Voculanzicula”ovvero “L’altalena” di Martoglio. Francesca, fra risate e riflessioni, insegna loro la forza del sogno, il potere dell’immaginazione, confortandoli nell’affermare che fuori dalle sbarre c’è tanta gente prigioniera delle proprie turbe e paure. In fondo, a quanti di loro sarà stato permesso di vivere come bambini le cose dei bambini? Persone che non hanno avuto un’età ma che sanno contare gli anni che trascorreranno dentro le sbarre. Dunque, poiché questa permanenza ha un tempo, loro potranno impiegarlo per imparare che il riscatto è possibile, potranno virtualmente penetrare quelle sbarre…
La vita di tutti i giorni in qualsiasi ambiente sia essa vissuta, in contesti economici e culturali diversi, una volta superate le innumerevoli porte della case circondariali che si aprono e si chiudono alle spalle di chi è condannato, cambia radicalmente la propria vocazione, quella innanzitutto di esercitare il libero arbitrio rispetto anche alle piccole cose, come uscire sul balcone a fumare una sigaretta…
Non esiste una polemica o un giudizio ma una manifestazione d’intenti per proporre l’importanza della rieducazione e spesso alla educazione al vivere sociale. “Guardia, si rende conto che io qui ho a ché fare con persone che se avessi incontrato fuori, avrei cambiato marciapiede e alle quali, invece sto parlando di Shakespeare?”.
In alcune realtà sociali, le famiglie generano curando prevalentemente l’aspetto della necessità per garantire la quale si predilige la formazione di un individuo svelto di mano e di lingua, avviato nell’adolescenza a mestieri vari piuttosto che scolarizzato nel senso più tradizionale della parola. In alcuni ambienti non si contesta ciò che manca ma ciò che viene preso a modello: soldi facili, pochi scrupoli. E queste necessità spazzano via il tempo da dedicare alla scuola sin dai primi anni di sviluppo della personalità che viene forgiata dalla famiglia nell’unico modo che essa conosce, ovvero l’affermazione di un “sé” privo di disciplina e parametri correttivi.
Secondo il Buddismo, “ogni singolo essere vivente è una manifestazione unica della verità fondamentale, e dal momento che ogni persona manifesta questa verità nel suo carattere unico e peculiare, ognuno di noi rappresenta un aspetto prezioso e indispensabile dell’universo vivente”. Ma in carcere ogni individuo perde le sue peculiarità, rovescia il comune senso di verità (“sapissi chì bellu teatro fazzu ogni vota davanti al giudice…!” – dice “Polifemo”) e smarrisce il senso di essere una parte del tutto.
Nel 2013, l’Italia viene condannata dalla Corte di Strasburgo per l’inadeguatezza degli ambienti carcerari. Nel 1763, Cesare Beccaria nel saggio “Dei delitti e delle pene”, scriveva “verrà il tempo in cui le pene saranno moderate, saranno tolti lo squallore e la fame nelle carceri, la compassione e l’umanità penetreranno le porte ferrate…”. Anche se a quell’epoca si eseguivano le condanne capitali per reati non accertati con un regolare processo e le assunzioni di responsabilità venivano estorte con l’uso della tortura, Beccaria fu il primo a sostenere il carcere al posto della violenza e dei metodi spicci ed atroci in uso a quel tempo.
La Legge Smuraglia del 22 giugno 2000 n° 193 favorisce l’introduzione in carcere del lavoro, non come lavoro a cui i detenuti siano costretti bensì per creare opportunità di crescita, apprendimento ed impegno. Così, dal 1975 in poi, ovvero da quando una legge stabiliva che “il carcere deve avere come obiettivo la rieducazione ed il reinserimento dei detenuti nella società attraverso il migliore trattamento penitenziario individuale”, sono aumentate le iniziative per impiegare produttivamente l’inabilità forzata del condannato. Se le condanne sono superiori a tre anni, il recluso viene avviato alla formazione di un mestiere che varia dalla panificazione, la cucina, il servizio lavanderia, la creazione di oggetti spesso commissionati da aziende che (soprattutto al centro Italia) si uniscono in cooperative ed affidano anche lavoro ai detenuti in carcere. Al fine di garantire la riabilitazione culturale e sociale da parte dello Stato laddove la famiglia e le istituzioni prima avevano fallito.
Nel 1959, per la prima volta un gruppo di detenuti/attori formatasi all’interno di un carcere, mette in scena “Delitto e Castigo” di Dostoevsky e da allora si è dato l’avvio a queste compagnie che si formano in base al criterio di discernimento del direttore dell’istituto penitenziario e che non hanno nessuno scopo di lucro. Studi sul comportamento della persona hanno dimostrato che il detenuto che si spende in quest’attività riuscirà ad avvicinarsi alla conoscenza in modo assai più produttivo di quanto gli propone la scuola all’interno del carcere perché in essa l’adulto non più avvezzo non riesce a riconoscersi – semmai ad avvilirsi e non trovare gli stimoli -, mentre il teatro può costituire un vero e proprio momento di “evasione” che li affranca per altro anche dal rischio di cronicizzare quelle relazioni di dipendenza che si istaurano in carcere generando vincoli, timori e sudditanza verso i più forti e spavaldi. L’attività teatrale ha dimostrato di essere in grado di allontanare da questi rischi e di generare curiosità verso un mondo sconosciuto che costituisce in sé un approccio alla conoscenza schietto e diretto perché “per un momento si diventa un altro, un personaggio diverso”. I detenuti di Bicocca, alla fine diventeranno tutto ciò che sta scritto sul copione, felici di aver potuto portare un po’di se stessi a quei ruoli o a quei luoghi (il boschetto della Playa al posto del bosco del villaggio) e piangeranno lacrime vere e senza vergogna quando concluso il lavoro e dunque il progetto, Francesca, così come nella finzione scenica, li saluterà.
“Sogno di una notte a Bicocca” è un’opera deliziosa che si avvale di una grande idea supportata da una forte esperienza; diretta con discrezione ed essenzialità da Francesca Ferro, a cui va anche il merito di aver messo insieme una squadra di grandissimi talenti che, consapevole di avere a ché fare con attori di grande potenzialità, dirige con libertà ed elasticità, con la stessa leggerezza con cui recita il ruolo di se stessa, prendendo posizione sul palcoscenico in attesa che si completino le dinamiche che riguardano tutti gli altri; esattamente come credo abbia fatto col gruppo che ha guidato e diretto in carcere: ascoltando e traendo il meglio. Assimilo la sua regia piuttosto al lavoro di un direttore d’orchestra che non nutre manie di protagonismo bensì consapevolezza di avere a ché fare con strumenti che garantiranno una melodia perfettamente accordata. E lei e gli straordinari Ileana Rigano, Agostino Zumbo, Mario Opinato, Silvio Laviano, Renny Zapato, Giovanni Arezzo, Francesco Maria Attardi, Giovanni Maugeri, Vincenzo Ricca, Antonio Marino, Dany Break sono perfettamente riusciti in questo proposito.
Senza enfasi e senza polemica l’opera è dedicata a coloro che allora lavorarono con lei, con quei detenuti/attori che ancora scontano la pena in carcere.

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