Mancanza di un termine massimo di durata dei procedimenti sanzionatori ex lege n. 689 del 1981

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Mancanza di un termine massimo di durata dei procedimenti sanzionatori ex lege n. 689 del 1981

L’amministrazione, pur in assenza della predeterminazione legale del termine massimo per la conclusione del procedimento sanzionatorio ex lege n. 689 del 1981, agisce comunque in modo tempestivo, rispettando l’esigenza del cittadino di certezza, nella specifica accezione di prevedibilità temporale, delle conseguenze derivanti dall’esercizio dei pubblici poteri, e, ove protragga in modo ingiustificato l’esercizio del potere, deve darea puntuale motivazione delle ragioni che le hanno, in ipotesi, impedito di applicare la sanzione in contiguità temporale con l’accertamento dell’illecito (1).

(1) Ha ricordato la Sezione che la stessa Corte costituzionale, chiamata di recente a pronunciarsi sulla conformità a costituzione della mancata previsione di un termine finale per l’esercizio della potestà sanzionatoria (nella specie si trattava del termine per l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione di cui all’art. 18 L. 689/81), con la sentenza n. 151 del 12 luglio 2021 ha osservato che “Nel procedimento sanzionatorio, riconducibile nel paradigma dell’agere della pubblica amministrazione, ma con profili di specialità rispetto al procedimento amministrativo generale, rappresentando la potestà sanzionatoria – che vede l’amministrazione direttamente contrapposta all’amministrato – la reazione autoritativa alla violazione di un precetto con finalità di prevenzione, speciale e generale, e non lo svolgimento, da parte dell’autorità amministrativa, di un servizio pubblico (Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 15 luglio 2014, n. 15825), l’esigenza di certezza, nella specifica accezione di prevedibilità temporale, da parte dei consociati, delle conseguenze derivanti dall’esercizio dei pubblici poteri, assume una rilevanza del tutto peculiare, proprio perché tale esercizio si sostanzia nella inflizione al trasgressore di svantaggi non immediatamente correlati alla soddisfazione dell’interesse pubblico pregiudicato dalla infrazione”.

La Corte ha osservato chein materia di sanzioni amministrative, il principio di legalità non solo impone la predeterminazione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere, della configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione, della tipologia e della misura della sanzione stessa e della struttura di eventuali cause esimenti (Corte cost. n. 5/2021), ma deve necessariamente modellare anche la formazione procedimentale del provvedimento afflittivo con specifico riguardo alla scansione cronologica dell’esercizio del potere. Ciò in quanto la previsione di un preciso limite temporale per la irrogazione della sanzione costituisce un presupposto essenziale per il soddisfacimento dell’esigenza di certezza giuridica, in chiave di tutela dell’interesse soggettivo alla tempestiva definizione della propria situazione giuridica di fronte alla potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, nonché di prevenzione generale e speciale.

Inoltre, la fissazione di un termine per la conclusione del procedimento non particolarmente distante dal momento dell’accertamento e della contestazione dell’illecito, consentendo all’incolpato di opporsi efficacemente al provvedimento sanzionatorio, garantisce un esercizio effettivo del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. ed è coerente con il principio di buon andamento ed imparzialità della PA di cui all’art. 97 Cost.

Secondo il Giudice delle leggi “Alla peculiare finalità del termine per la formazione del provvedimento nel modello procedimentale sanzionatorio corrisponde una particolare connotazione funzionale del termine stesso. Mentre nel procedimento amministrativo il superamento del limite cronologico prefissato dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990 per l’esercizio da parte della pubblica amministrazione delle proprie attribuzioni non incide ex se, in difetto di espressa previsione, sul potere (sentenze n. 176 del 2004, n. 262 del 1997), in quanto il fine della cura degli interessi pubblici perdura nonostante il decorso del termine, la predefinizione legislativa di un limite temporale per la emissione della ordinanza-ingiunzione il cui inutile decorso produca la consumazione del potere stesso risulta coessenziale ad un sistema sanzionatorio coerente con i parametri costituzionali sopra richiamati”

Afferma la Corte che a fronte della specifica esigenza di contenere nel tempo lo stato di incertezza inevitabilmente connesso alla esplicazione di una speciale prerogativa pubblicistica, quale è quella sanzionatoria, capace di incidere unilateralmente e significativamente sulla situazione giuridica soggettiva dell’incolpato, non risulta adeguata la sola previsione del termine di prescrizione del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto dall’art. 28 L. 689/1981. Esso, al di là della varietà delle ipotesi ricostruttive cui la natura “ibrida” della nozione legislativa ha dato adito – che ne individuano l’oggetto ora nel diritto di credito dell’autorità competente, ora nell’illecito, ora nello stesso potere sanzionatorio – identifica il margine temporale massimo dell’inerzia dell’amministrazione, superato il quale l’ordinamento presume il venir meno dell’interesse pubblico a dare attuazione alla pretesa punitiva.

La Corte ha chiarito che il termine quinquennale di cui all’art. 28 L. 689/1981 non risulta congruo, in quanto “l’ampiezza di detto termine, di durata quinquennale e suscettibile di interruzione, lo rende inidoneo a garantire, di per sé solo, la certezza giuridica della posizione dell’incolpato e l’effettività del suo diritto di difesa, che richiedono contiguità temporale tra l’accertamento dell’illecito e l’applicazione della sanzione”.

Ciò posto, la Corte ha tuttavia rilevato “che la omissione legislativa denunciata dal rimettente non può essere sanata da questa Corte, essendo rimessa alla valutazione del legislatore l’individuazione di termini che siano idonei ad assicurare un’adeguata protezione agli evocati principi costituzionali, se del caso prevedendo meccanismi che consentano di modularne l’ampiezza in relazione agli specifici interessi di volta in volta incisi” e, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni sollevate – in ragione del doveroso rispetto della prioritaria valutazione del legislatore in ordine alla individuazione dei mezzi più idonei al conseguimento di un fine costituzionalmente necessario (cfr. sentenza n. 23 del 2013) ha sottolineato “che il protrarsi della segnalata lacuna normativa rende ineludibile, per le ragioni dianzi poste in evidenza, un tempestivo intervento legislativo. Tale lacuna, infatti, colloca l’autorità titolare della potestà punitiva in una posizione ingiustificatamente privilegiata che, nell’attuale contesto ordinamentale, si configura come un anacronistico retaggio della supremazia speciale della pubblica amministrazione”.

Osserva il Collegio che, nonostante le riferite sollecitazioni, il legislatore non è ancora intervenuto a colmare il vuoto normativo stigmatizzato dalla Consulta; ciò posto, de jure condito, la questione non può non essere risolta se non tenendo presenti le coordinate ermeneutiche dettate dalla Corte costituzionale, dunque avendo riguardo ai princìpi generali di economicità, di efficacia, di buon andamento ed imparzialità, che devono presidiare tutta l’attività amministrativa.

L’applicazione dei suddetti principi postula che l’amministrazione (pur in assenza della predeterminazione legale del termine massimo per la conclusione del procedimento sanzionatorio) agisca comunque in modo tempestivo, rispettando l’esigenza del cittadino di certezza, nella specifica accezione di prevedibilità temporale, delle conseguenze derivanti dall’esercizio dei pubblici poteri, e che, ove protragga in modo ingiustificato l’esercizio del potere, dia puntuale motivazione delle ragioni che le hanno, in ipotesi, impedito di applicare la sanzione in contiguità temporale con l’accertamento dell’illecito.

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