“La mite” di Dostoevskij vista da Valeria La Bua e Davide A. Toscano

“La mite” di Dostoevskij vista da Valeria La Bua e Davide A. Toscano

Non è mai facile approcciarsi come lettori, come spettatori, come registi, sceneggiatori – come tutti insomma – agli scrittori e ai drammaturghi russi a cavallo tra l’ottocento e il novecento; un po’ perché sono in gran parte nichilisti e, quando non lo sono, sono “maledettamente” borghesi e un po’ perché la narrazione, per quanto coinvolgente, è sempre  complessa, malinconica, ombrata, quando non disperata e negativa.

Non fa eccezione il racconto La Mite di Fëdor Dostoevskij la cui pièce andata in scena al Piccolo Teatro della Città di Catania con l’adattamento e la drammaturgia di Valeria La Bua (che cura anche la regia insieme con Davide A. Toscano) e vede in scena gli attori Giovanni Arezzo e Alessandra Pandolfini e prodotto da Teras Teatro in collaborazione con Associazione Città Teatro.

Definita dal critico Leonid Grossman “una delle storie di disperazione più potenti nella letteratura universale”, La Mite è un racconto poco noto, ma di infinito spessore, di Fëdor Dostoevskij ed è uno dei primi flussi di coscienza mai scritti.

La storia comincia con un uomo che porta in scena il cadavere della moglie, appena suicidatasi (si è gettata dalla finestra, tenendo tra le mani un’immagine sacra).

Il flusso del suo racconto sarà il tentativo di ricomporre la realtà, di capire il motivo del gesto della donna. I due si erano conosciuti presso il monte dei pegni dell’uomo, che faceva lo strozzino: la donna andava da lui per chiedere dei soldi in cambio di piccoli oggetti. Attratto dalla sua giovane età e dal suo carattere mite, l’uomo decide di sposarla, sottraendola a due zie cattive e alle attenzioni di un vecchio bottegaio.

La storia va avanti poco a poco svelandoci ciò che si cela dietro le ostentate apparenze.

Si tratta di un testo che, come scrivono i due registi, “disvela, con conoscenza chirurgica, i rapporti di potere – a volte nascosti – che covano in un rapporto di coppia”. E lo fa attraverso un protagonista che ha perso il suo posto nel mondo, in cerca di una vendetta nei confronti della società e attraverso una donna – la Mite, appunto – che lui ha scelto, appositamente giovane e ingenua, per essere totalmente sua».

«Ciò che è certo – dicono i due registi – , è che in questo racconto l’altro rimane un enigma insondabile, profondo e oscuro. I pensieri della Mite ci rimangono ignoti fino alla fine: quali fossero i suoi sogni, i suoi desideri, le sue paure e le sue emozioni, tutto ci è ignoto. Il suo punto di vista è totalmente eclissato, sommerso dalla logorrea del protagonista.

La sua “scomparsa” ricorda quella delle vittime nei casi di femminicidio, in cui a prendere rilevanza, a riempire le prime pagine è soltanto la figura dell’assassino.

. «La regia – continuano – mette l’accento su questa scelta di Dostoevskij, dando voce solamente al protagonista maschile, interpretato da Giovanni Arezzo. Costui, uno dei tanti uomini del sottosuolo che caratterizza la produzione del maestro russo. E’ un personaggio sordido, ma allo stesso tempo animato da buoni propositi, e, – forse – dotato perfino di un animo nobile. E’ però la relazione col mondo esterno, con la società, a viziarne il carattere, a renderlo tormentato, severo e, infine, vendicativo nei confronti di una donna che sarebbe stata disposta ad amarlo.

La figura insondabile della Mite, sempre accanto a lui, ma chiusa nel silenzio della propria infelicità, è interpretata da Alessandra Pandolfini e a lei toccherà il compito, in un certo senso, di “condurre” il ricordo dell’uomo.

Questi due personaggi, marito e moglie, uomo e donna, si fronteggiano come due duellanti: costretti a combattere,  “da umani troppo umani”,  tra di loro, in cerca di comprensione, salvezza o – forse – più semplicemente, amore.

Come in un pendolo ciascuno è buono ed ha ragione, è cattivo ed ha torto: siamo tutti tutto e il bello, il buono, l’onesto e il loro contrario emergono in base alle circostanze, alle condizioni in cui versa la nostra anima.

La scena è pressoché vuota: una rete senza materasso, una sedia, una borsa con dentro qualche quattrino, un secchio, Lei morta adagiata sulla rete, Lui che le sta accanto e lo sfondo nero; nero come la disperata, vana ricerca di valore e di senso nella vita dei due protagonisti in fine sconfitti entrambi  dal morbo nichilista.

L’accorta regia di Valeria La Bua e il gioco di luci di Davide Toscano e Simone Raimondo  hanno riempito la scena ed esaltato le performance dei due protagonisti; la giovanissima Alessandra Pandolfini che aveva assegnata la parte più difficile: recitare esclusivamente col corpo, col volto, con gli occhi, coi tempi del movimento e senza l’ausilio della parola; e Giovanni Arezzo ch’era narratore e protagonista al tempo stesso, che ha – ancora una volta – dato prova di essere un attore degno di questo nome, con una matura propensione per i ruoli drammatici, la parlata pulita e la duttile presenza scenica.

Foto Dino Stornello

 

 

 

 

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