“Una verde vena di Follia” con Mascia Musy alla Sala Futura dello Stabile

“Una verde vena di Follia” con Mascia Musy alla Sala Futura dello Stabile

Spettacolo per adulti l’altra sera alla Sala Futura del Teatro Stabile di Catania dove si sono affrontati in un emozionante incontro/scontro il Principio di Non Contraddizione e la Follia, incarnati da una titanica Mascia Musy e dalla impeccabile  Viviana Lombardo.

La pièce che ha ospitato il match, prodotta dal Teatro Biondo di Palermo, è stata “Una verde vena di Follia” tratta dal libro “La vena verde” di Alessio Arena, liberamente ispirato alle lettere che Maria Antonietta Portulano moglie di Luigi Pirandello scrisse al figlio Stefano.

L’adattamento teatrale e regia sono state di Emanuela Giordano, le musiche originali erano di Tommaso Di Giulio e Leonardo Ceccarelli, mentre le scene, i costumi e le luci della stessa Emanuela Giordano.

Leggiamo dal biglietto di sala: “Una verde vena di follia è un canto d’amore e di alterità (…) ambientato nell’Italia del secolo scorso, dove le donne “eccentriche” o di “eccessivo ed anarchico temperamento” venivano rinchiuse in “Case di custodia e cura”

La protagonista provoca, tiranneggia e cerca conforto nell’unico essere umano che ha la sventura di starle accanto: un’infermiera/custode che farebbe volentieri a meno di ascoltare le confessioni e gli sfoghi della donna, di contenere i suoi improvvisi sbalzi di umore e i tentativi di fuga.

Nonostante la forzosa convivenza, gli scherzi atroci, gli spaventi continui, le vessazioni reciproche, le due donne instaurarono una relazione di mutua comprensione, quasi una sovrapposizione delle proprie esistenze ai margini, con accenti di improvvisa ironia, per ritagliarsi quel lembo di felicità che spetta a tutti gli esseri umani. L’odiato e amatissimo marito, egli stesso vittima e carnefice della donna, è continuamente evocato, raccontato, svelato, sognato”.

“Questo mio lungo monologo è un atto d’amore – scrive Alessio Arena – un amore mancato, sofferto, fragile, combattuto, ma pur sempre amore. La storia è frutto della mia immaginazione e tuttavia è più vera del reale. Ho cercato di raccontare la disperazione, la rabbia, le nostalgie e le passioni contraddittorie di una delle tante donne che sono state prigioniere di una casa di cura e di custodia nel Novecento.”

Mentre Emanuela Giordano ci tiene a dire: “Mettiamo in scena un destino femminile che ci cammina a fianco. Siamo tutte figlie o nipoti della protagonista, donna di ‘inopportuna’ fierezza, audace esploratrice di fantasie e verità scomode. Se fosse nata oggi, probabilmente, sarebbe un’artista di strada, una poetessa, Marina Abramovich, Alda Merini o magari una rock star. Avrebbe trasformato la sua ‘follia’ in potenza creatrice. In scena abbiamo disegnato un luogo di espiazione e contenimento, per trovare una via di fuga ci vorrà un atto di coraggio estremo, un salto al di là del reale”.

Questa la Weltanschauung di chi ha scritto e messo in scena la pièce. Noi ci abbiamo visto anche qualche cosa d’altro.

Guidati dall’ottimo testo e dalla interpretazione di Mascia Musy, per la cui bravura ed efficacia comunicativa non riusciamo a trovare aggettivi sufficienti a renderne la pienezza, abbiamo visto l’eterno conflitto fra la razionalità di un mondo cinico e baro e la follia di una donna, di tutte le donne costrette nella camicia di forza di un patriarcato che ha negato loro identità e parola e che le relega ad accessorio dell’uomo, a puro strumento di produzione, a schiave  assise sul trono dell’ipocrisia.

All’alba dell’Umanità gli uomini veneravano le donne perché dovevano sembrar loro magiche, esse avevano Poteri di cui loro erano privi: il potere della generazione, il potere del nutrimento autonomo della prole e quello di indurli – magicamente – in erezione. Affascinati, le veneravano.

Venne poi la “Civiltà” e l’uomo sottomise la sua quasi Dea al suo Potere; ma la sottomissione non poté obliarne quella natura divina che le consentiva e le consente di abitare agevolmente le stanze della Follia (sia detto chiaro fin da adesso, per evitare equivoci: si intende con ciò fare alle donne un complimento!),  perché la Follia appartiene agli Dei, è una caratteristica del divino; mentre la razionalità è tutta terrena, tipica del maschio, frutto della “Civiltà”.

L’Amore è una delle case della Follia; ed è per questo che le donne, folli per concessione divina, amano di più e meglio degli uomini e sfidano la razionalità e  il suo principio di non contraddizione secondo cui una cosa è qualcosa e non qualcos’altro.

Gli uomini sono terrorizzati se qualcosa è qualcos’altro e, per difendersi dalla loro inadeguatezza, la chiamano Follia e costringono i folli nei tanti recinti sociali e ambientali che impediscano ad essi – donne soprattutto – di intaccare il loro castello di certezze logiche.

E’ quello che è accaduto a Maria Antonietta Portulano in Pirandello, vittima d’un marito che, “in tutt’altre faccende affaccendato” non era capace di amarla e di una società misogina e crudele dove la donna era un “bene” sacrificabile, poco più d’una cosa animata.

Maria Antonietta grida il suo bisogno d’amore, scruta e interroga il Cielo, aspetta invano il marito per elemosinare da lui quelle briciole d’amore che anche una banale visita, una sola parola, oggidì anche un SMS o un like sui social può donare; quelle briciole che i sazi  e gli stolti disdegnano, dileggiando e commiserando i disperati che le accettano; senza rendersi conto che le briciole per i disperati sono Speranza, sono alimento necessario per continuare a vivere, perché “di notte è molto strano, ma il fuoco di un cerino ti sembra il sole che non hai”.

Negarle all’agognante è davvero crudele e blasfemo.

A tutto questo impianto antropologico hanno dato vita Mascia Musy e Viviana Lombardo, attraverso una recitazione attenta e calibrata, con l’uso sapiente della voce e del movimento scenico, delle pause e dell’articolazione della parola, della sua sottolineatura: davvero uno spettacolo edificante di tecnica e abilità attoriale.

A tratti, chiudendo gli occhi poi, c’è proprio sembrato di sentire l’incedere del grande Gianni Musy ch’era dotato, come pochi, della qualità maggiore e più rara d’un vero attore: mostrarsi talmente spontaneo in palcoscenico da dare l’impressione allo spettatore d’essere il personaggio non di recitarlo.

Complimenti alla figliola.

 

 

 

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