Il vento fortissimo nel Giardino dei Ciliegi di Alberto Orofino

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Il vento fortissimo nel Giardino dei Ciliegi di Alberto Orofino

Scroscianti, meritati applausi finali hanno salutato l’altra sera al Piccolo Teatro della Città di Catania la rappresentazione de IL GIARDINO DEI CILIEGI di Anton Cechov prodotto dall’Associazione Città Teatro per la regia di Nicola Alberto Orofino.

Luana Toscano, Egle Doria, Francesco Bernava, Anita Indigeno, Daniele Bruno, Luigi Nicotra,  Alice Sgroi, Carmela Silvia Sanfilippo, Lucia Portale, Giovanni Zuccarello,  Alberto Abbadessa, Vincenzo Ricca, Vincenzo la Mendola e Gabriella Caltabiano sono stati gli attori che hanno dato vita alla pièces.

Le scene e i costumi erano di Vincenzo La Mendola. Assistente alla regia è stata Gabriella Caltabiano.

Se si obnubila per il tempo necessario il Giardino di Cechov, lo spettacolo è stato godibilissimo ed è valso davvero la pena di sfidare Giove Pluvio che intanto aveva deciso di scaricare tutta intera la sua Ira bagnata su Catania.

Il collettivo dei numerosi attori che la scena richiede è stato proprio impeccabile, un orologio svizzero con punte di autentica eccellenza, “dodici anime” che “donano pezzi del loro cuore”.

Per potere capire appieno la weltanschaaung  del regista non si può fare a meno di considerare ciò che egli scrive nelle note di regia: “C’è un vento fortissimo che soffia e rumoreggia fra i rami degli alberi che affollano il giardino del nostro passato. E’ un vento freddo, freddissimo. Porta cose nuove. E le cose nuove si sa, fanno sempre un sacco di paura. ‘Pianteremo un nuovo giardino, più bello di questo, un giorno lo vedrai, e allora capirai, e la gioia, una gioia serena, profonda scenderà nel tuo cuore come il sole nella sera”.

“Piantare un nuovo giardino”. A parlare è la giovane e inesperta Anja che lancia persuasioni e certezze, del tutto spaesata di fronte ad un futuro tutto da costruire.

Ecco il punto.

Niocola Alberto Orofino si colloca tra coloro che – nonostante Cechov sia il manifesto cantore non solo della decadenza della società borghese russa di fine ottocento e, con essa, dell’intera Umanità ch’è destinata a configurarsi come il “mucchietto di polvere livida” secondo la visione di Tomasi di Lampedusa – vedono tra le righe (non solo del Giardino) un messaggio positivo e di speranza e di fiducia in un futuro che per Cechov non poteva che essere quello del sol dell’avvenire d’ispirazione socialista.

Scrive sempre Orofino:”IL GIARDINO DEI CILIEGI è il più potente e profetico manifesto di libertà, inteso come drammatico e lunghissimo percorso di liberazione che intende riflettere sul significato e le conseguenze della contemporaneità.  La perdita del “giardino” appartenente a Ljubov’ Andreevna e suo fratello Gaev, membri di una aristocrazia in completo declino, e governato con smisurata dedizione dalla dura e commovente Varja, rappresenta a ben vedere un’opportunità di reale cambiamento”, … e ancora  “Un nuovo mondo si affaccia: nasce la borghesia, viene abolito il sistema feudale, la rivoluzione è alle porte. Cechov respira questo fermento e lo trasmette all’umanità che inventa e racconta (…), il cambiamento diventa un obbligo al quale è impossibile sottrarsi.  Impraticabile è qualunque possibilità di crogiolarsi in un passato nostalgico e vetusto.  I venti rivoluzionari cominciano a soffiare impetuosi”.

Chi scrive non condivide questa visione cristiana e redentrice della mistica cechoviana.

Cechov fu senz’altro rivoluzionario. Sul piano stilistico  propose e impose un linguaggio nuovo che destrutturò la vicenda teatrale dominante a fine ottocento con i suoi personaggi stereotipi e la frequenza temporale dei colpi di scena. Introdusse la dimensione morale e il giudizio storico severo sulla società russa, incapace di commisurare i sogni alla realtà. Il suo scetticismo teleologico trova i suoi fattori mitiganti solo in una dimensione metafisica e sconosciuta.

La sua rivoluzione finisce qui.

Quando si parla di Cechov il pensiero va alle slitte che tintinnano nella notte, al samovar che bolle sulla tavola del salotto, ai boschi di betulle intraviste attraverso le finestre appannate e anche ad un certo tipo di recitazione pausata dove i personaggi sembrano sempre chiacchierare, di parlare d’altro pur di evitare i loro, drammi tranne nei momenti di crisi.

A tutto questo si riferisce, probabilmente il regista quando ci informa che ha “cercato di scrostare il testo e la messa in scena dai vetusti cechovismi che spesso appesantiscono questa drammaturgia”.

Ed è vero, il “risultato è uno spettacolo che ha un andamento forse più dinamico e un gusto più mediterraneo rispetto ad altre gloriose edizioni”.

Un opera davvero mirabile: quattro atti ridotti a uno. Un ritmo recitativo modernissimo, quasi una cavalcata, niente affatto cechoviano. Corrono gli attori, di qua e di la, su un palcoscenico semivuoto carico di invenzioni scenografiche minimali, qualcuna geniale, qualcun’altra un po’ meno.

Qualche personaggio poi, che Cechov crea maschio diventa donna: non è chiarissima la utilità drammaturgica della trasformazione. Il testo è ridotto all’essenziale; eppure il dramma di Ljubov’ Andreevna e della famiglia che le gira intorno c’è tutto; e c’è tutto alla Cechov; perché il testo quello è, e non si può cambiare a dispetto delle coloriture mediterranee.

Questa famiglia borghese che ostinatamente rifiuta il cambiamento perderà la casa e il giardino dei ciliegi, sarà costretta a partire, “sbaglierà tutti i sogni” per dirla con Arthur Miller, si trasfigurerà e morirà ciò che deve morire: morirà l’armadio che compie cent’anni e che, purtroppo, si può solo immaginare.

Moriranno i pupi, i fantocci, i miti con i quali tutti si trastullano, finiranno tutti dentro scatoloni come fossero casse da morto e, in ultimo, morirà l’Umanità intera riassunta nell’anziano servitore Firs che, sorprendentemente, vien fatto morire lontano dal pubblico e ai margini della scena mentre se ne dovrebbe stare al centro del palcoscenico e vicino al pubblico giacché egli riassume 4 atti in una frase tragicamente tanto banale quanto gelida e funerea: “Anche la vita se n’è andata ed io non l’ho neanche vissuta”.

Il Giardino dei Ciliegi è rassegnazione, è disperazione, è fallimento, è cupio dissolvi.

 

La foto è di Dino Stornello

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