Tulumello, Brevi riflessioni sulla formazione culturale del giurista, e sulle sue conseguenze

Tulumello, Brevi riflessioni sulla formazione culturale del giurista, e sulle sue conseguenze

Nel 1991 Francesco Galgano dedicò un capitolo del suo “Il rovescio del diritto” a spiegare che i giuristi, specie quelli che scrivono, spesso non leggono:nel senso che, soprattutto, non praticano letture non giuridiche; il che spesso ha conseguenze sul modo di ragionare e di parlare.

Si dirà che è una carenza imputabile all’ educazionepre-giuridica, scolare o familiare, quella che si compie – irrimediabilmente – entro la prima fase della vita: ma occorre chiedersi se l’esercizio delle professioni giuridiche, e di quella del giudicare in particolare, possa prescinderne; ché in caso di risposta negativa, i testi letterari sarebbero evidentemente non meno importanti e necessari di quelli giuridici per una corretta formazione del giurista (e come tali la loro conoscenza non andrebbe lasciata alla sensibilità e all’iniziativa individuale: esattamente come accade per i testi giuridici).

Questa in Italia conserva tuttora un’impostazione tradizionalmente formale: il che non sarebbe di per sé un male, se non avesse un effetto culturale escludente rispetto ad altri settori del sapere e, ancor di più, rispetto alle dinamiche della vita (proprio quelle che il diritto, in ultima analisi, dovrebbe regolare: e la cui conoscenza dovrebbe aiutare l’interprete)[4].

Il dato era ed è reale (anche prescindendo dagli effetti causati dal successivo avvento dei social, e dalla conseguente trasformazioni di molti giuristi in influencer del diritto: nei quali solitamente l’assenza di adeguate letture metagiuridiche si associa ad un carente rigore del metodo giuridico).

Tutto ciò peraltro si registra in una fase storica in cui la giurisdizione tende talora a “decidere secondo valori”[5]: dunque con l’ulteriore rischio che la sostituzione del soggettivismo giudiziario all’oggettività normativa conduca ad un’applicazione della norma per finalità (o in direzioni) diverse rispetto a quelle assunte quale fondamento della stessa, tutte le volte in cui tale sostituzione non trovi adeguato bilanciamento quanto meno nell’esistenza di freni e limiti culturali agli inevitabili rischi connessi agli eccessi di soggettivismo.

Per fortuna ogni tanto aiuta il confronto con giuristi di diversa estrazione.

Leggevo nelle scorse settimanele conclusioni dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia MichalBobek nel caso C-561/19, che sollecitavano la Corte a rivedere la propria giurisprudenza – retorica ed enfatica: e perciò, dice Bobek, inapplicabile – sull’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte dei giudici di ultima istanza.

Va cambiata, in sostanza, perché non funziona: anzi, perché non ha mai funzionato.

È elegante, sono quaranta anni che se ne parla e che si studia nelle aule universitarie: ma non serve allo scopo.

Alla fine, l’Avvocato Generale sente di dover spendere un argomento non giuridico-formale: “Nelle presenti conclusioni ho dedicato un bel po’ di spazio a tentare di spiegare perché ritengo che l’uniformità ex sentenza CILFIT quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione in ciascun caso di specie sia un’utopia. Tenuto conto del carattere decentralizzato e diffuso del sistema giudiziario dell’Unione, il meglio che si possa mai raggiungere è una ragionevole uniformità nell’interpretazione del diritto dell’Unione, in quanto questo tipo di uniformità è già un compito piuttosto arduo. Quanto all’uniformità nell’applicazione e nei risultati, la risposta è piuttosto semplice: «nessuno può perdere ciò che non ha mai avuto»”.

La citazione finale – tratta da “The complete angler”, di IzaakWalton: testo nel quale la pesca è il pretesto per meditazioni filosofiche sul senso dell’esistenza – vale evidentemente anche nella vita: e se vale nella vita, aiuta certamente nella scelta di una soluzione interpretativa circa la regola da osservare.

È uno dei (non frequenti) casi in cui un giurista, dotato evidentemente anche di una raffinata cultura non giuridica, utilizza in modo pertinente un riferimento letterario in chiave non estetica, ma sostanziale: non come sfoggio di sapere, ma come strumento logico, come concreto ausilio all’interpretazione giuridica; supportando il proprio convincimento con un argomento informale, ma non per questo meno efficace.

Bobek ha letto Walton: e (anche) questo gli ha fortunatamente impedito di elaborare una soluzione magari raffinata o “impegnata”, ma del tutto inutile.

Torna dunque il tema della formazione culturale del giurista, delle sua comprensione dei fenomeni esistenziali, dei suoi riferimenti letterari: non di quelle “tematici”, in materia di diritto o di giustizia, ma piuttosto della comprensione di “scrittori che hanno considerato l’esercizio della letteratura come puro godimento dell’intelligenza (alla maniera di Borges o di Stendhal)”.

E allora forse sarebbe opportuno formare chi interpreta il diritto (e soprattutto chi lo interpreta per poi giudicare) al “godimento dell’intelligenza”: obiettivo ambizioso, senz’altro, specie in certi casi (e proprio Leonardo Sciascia ce ne indica molto bene le difficoltà, nel dialogo fra il professore e l’allievo magistrato in “Una storia semplice”); ma proprio per questo irrinunciabile in un’ottica di civiltà non solo giuridica.

Anche perché il compito (e il problema) principale è proprio quella della comprensione, perché legere et non intelligere est negligere: e l’imputato chiede al giudice, come condizione umana del giudicare,non solo e non tanto di sapere, ma piuttosto di capire cosa esattamente è successo e perché: non senza rammentargli che, in quanto individuo, la stessa cosa potrebbe capitare a lui.

Non sono dunque gli interessi o i “valori”, che spesso si traducono in pericolosi condizionamenti a monte (in pre-giudizi, dunque)], ma la fiducia nella persona umana (che presuppone la conoscenza delle sue dinamiche), ad orientare la chiave di lettura dell’ordinamento da parte del giudice.

Al di là del giudizio, e del giudizio penale, la stessa interpretazione delle norme andrebbe condotta sempre considerando che il diritto è scienza concreta, perché hominumcausa omneiusconstitutumest.

Quindi, ci esorta l’Avvocato Generale, quando una cosa non funziona cambiamola: non teniamocela lì solo per scriverci “trattati accademici”, e per replicare l’ossequio formale ad un principio risultato del tutto astratto].

Il legame diventa allora biunivoco: perché se la ragione di quest’ultima affermazione poggia su argomenti non solo giuridici ma filosofici ed esistenziali, allora essa, forse, vale anche nella vita.

Così lo studio e la pratica del diritto possono essere una chiave per leggere le vicende umane, oltre la dimensione giuridico-formale: e viceversa.

Il problema di una cattiva interpretazione e di una cattiva applicazione del diritto può nascere infatti non solo da una carente formazione giuridica, ma anche da una inadeguata base culturale, dalla mancanza di letture sufficienti a sviluppare gli anticorpi necessari a contrastare un utilizzo inappropriato degli strumenti dell’analisi giuridica.

Salvatore Satta osservava molti anni fa che la lettura della Costituzione – e, verrebbe da aggiungere oggi, della Carta dei diritti fondamentali, della C.E.D.U. e di altre fonti convenzionali spesso invocate in modo non sufficientemente meditato – produce su certi giuristi l’effetto che la lettura dei libri di cavalleria produceva su Don Chisciotte: Satta può fare un’affermazione del genere perché ha letto il Chisciotte (come Bobek ha letto Walton), ne ha compreso la questione di fondo, ne ha colto il valore didascalico in punto – tra l’altro –  di limite dell’irreale e del ridicolo (limite che ciascuno dovrebbe assumere come estremo: e tanto più, verrebbe da dire (con Satta), ove ci si faccia interpreti o sostenitori di una giurisprudenza secondo valori, improntata al soggettivismo).

In questo senso il contatto con la realtà, la formazione culturale non limitata al diritto, è il solo antidoto all’ “ivresse et le vertigedusolipsisme” che sempre più spesso connota certi “dialoghi” fra giurisdizioni.

Ciò che la letteratura può offrire al giurista è, dunque, soprattutto l’educazione al relativismo cognitivo e valutativo (paradigmatico è, in questo senso, l’apologo narrato da Dürrenmatt) e, ancor prima, il senso di limitazione e di finitezza della giustizia umana, e la sua differenza con la grazia e con la giustizia divina: tanto più importante di fronte alla possibile tendenza del giudice terreno a farsi – ancorché per ragioni magari dallo stesso ritenute nobili –  “arbitro in terra del bene e del male”.

La letteratura può essere così l’antidoto a una possibile autoreferenzialità della valutazione giuridica, e del giudizio giudiziario in particolare, quando l’interprete si senta investito del compito di lottare per una causa (intellettuale o morale) che ritenga giusta, e più giusta di tutte le altre, sovvertendo così magari l’ordine anche costituzionale dei concetti e delle tutele; ma soprattutto, sovvertendo la necessità logica e culturale di un relativismo cognitivo e valutativo che è alla base dell’idea stessa di diritto.

Giovanni Tulumello

Consigliere di Stato

Pubblicato il 21 gennaio 2022

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