Trionfale ritorno a Catania di Leo Gullotta al Teatro Brancati con Bartleby lo scrivano di Melville

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Trionfale ritorno a Catania di Leo Gullotta al Teatro Brancati con Bartleby lo scrivano di Melville

Chissà cosa sarà passato per la mente di Leo Gullotta l’altra sera al Brancati, mentre la sala stracolma di spettatori non finiva più di applaudire, richiedendo timidamente ma con chiarezza un’altra apertura di sipario per tributargli non solo gradimento, soddisfazione per lo spettacolo appena visto, ma soprattutto affetto e stima.

Chissà cosa avrà pensato? Lui cresciuto giovanetto alla scuola di attori giganti come Umberto Spadaro, Turi Ferro e il più grande di tutti nella seconda metà del novecento: Salvo Randone; chissà cosa avrà pensato a vedersi ora osannato da un pubblico che stentava a separarsi da lui per provare a rinnovare la magia di quella magnifica presenza; né più né meno come accadeva a quei suoi maestri.

Maestro accanto ai maestri, c’è da essere tentati dal peccato d’orgoglio.

“Ma sa, la vita mi ha dato tanto e io le ho dato altrettanto, forse per questo la gente mi vuole così bene. Più che per la mia supposta bravura credo che mi stimino per il rispetto che ho sempre avuto per gli altri, per il pubblico col mio stile d’attore e nel comportamento di tutti i giorni. Il rispetto dell’altro è il primo mattone dell’amore e mi rende felice riscontrare ad ogni replica che le persone, gli spettatori recepiscano e contraccambino questo messaggio”  ci risponde con gradevole pacatezza.

In scena si è esibito nella  pièces  ispirata al romanzo di Herman Melville, ridotta da  Francesco Niccolini. Insieme a Leo Gullotta sulla scena Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci. La regia è di Emanuele Gamba per le produzioni di Arca Azzurra; lo spettacolo è stato messo in scena nel 2019 al Festival dei Teatri Italiani di Napoli diretto da Cappuccio prima della pandemia e ha chiuso i battenti per quasi due anni a causa di questa. Da qualche mese ha ripreso a circolare in Italia

Bartleby lavora come scrivano per un avvocato di Wall Street. Egli è il più strano degli esseri umani. Non ha un nome, non ha un passato né famiglia, non ha casa, non mangia quasi nulla – tranne strani biscotti allo zenzero – non esce mai a prendere una boccata d’aria, non spende soldi, non manifesta sentimenti, non parla, non spiega. Soprattutto, è uno «scrivano che preferisce non fare».

«Preferirei di no» è il rifiuto che invariabilmente oppone alle richieste che gli vengono rivolte: una frase dalla quale non traspare alcuno spirito di ribellione, una frase che non significa nulla all’apparenza e accompagnerà Bartleby in una inarrestabile spirale di autoannientamento.

Un giorno Bartleby decide di rispondere a qualsiasi richiesta, dalla più semplice alla più normale in ambito lavorativo, con una frase che è rimasta nella storia: “I would prefer not to ”. Solo cinque parole, dette sottovoce, senza violenza e senza senso apparente, ma tanto basta.

“Un gentile rifiuto che paralizza il lavoro e la logica: una sorta di inattesa turbolenza atmosferica che sconvolge tanto l’ufficio che la vita intima del datore di lavoro” ci dice Francesco Niccolini.

Bartleby diviene incubo e nemesi del datore di lavoro, tanto da costringerlo alla mossa paradossale di spostarsi, lui!, in un nuovo ufficio. In seguito, vittima dell’apparente spregio per ogni convenzione mondana, senz’altra dimora (forse per povertà) che il luogo di lavoro, Bartleby è arrestato per vagabondaggio e finisce in cella nella prigione cittadina di Tombe, dove muore di stenti.

Proprio da questa insignificanza, che ha il rigore di una legge di natura e di una necessità estetica, discende tutta intera l’abbagliante bellezza del racconto di Melville.

“Bartleby lo scrivano” è uno dei racconti più famosi della letteratura nordamericana. È considerato un precursore della letteratura esistenzialista e dell’assurdo, anche se non ebbe fortuna all’epoca della pubblicazione (1853).

Interessante notare come “Bartleby” anticipa molti temi dell’opera di Franz Kafka, in particolare Il Processo, e lo stesso Albert Camus cita Melville e il suo scrivano come una delle letture che hanno influenzato la sua opera

Ma che senso dare a questo lungo racconto dello scrivano che preferisce di no?

Numerosi i critici che hanno cercato di interpretare il contenuto del testo, in particolar modo durante il XX secolo, generando anche la cosiddetta “The Bartleby Industry”, una infinita produzione di saggi e articoli su Bartleby. Addirittura sono state trovate nel testo allusioni cristiane secondo i critici occidentali e di quietismo buddista secondo quelli orientali.

Di sicuro, di Bartleby non ce n’è uno solo e la fascinazione del racconto risiede in parte nel mistero – o piuttosto – nel proliferare delle interpretazioni possibili attorno al dimesso quanto riottoso protagonista.

Le interpretazioni sul senso dell’agire del personaggio in centosettant’anni non si possono contare! Un elenco ragionato delle varie interpretazioni del racconto non si può fare.

S’è parlato di bullismo minore, di letteratura del no, di eterna adolescenza, di esistenzialismo ante litteram e poi ancora di malattia mentale: schizofrenia, depressione, autismo e tanto altro.

Ma al silenzio non si può, scientificamente, attribuire alcun significato a meno che il senso non sia concordato in precedenza dagli attori dell’azione; sicché ogni senso supposto, è al tempo stesso, arbitrario, corretto e sbagliato.

La stessa enigmatica, simbolica quanto reale espressione al centro del dramma “I would prefer not to” – com’è scritto in originale con le tipiche regole della grammatica inglese che qui non si richiamano per brevità – dove il to eliso sta per to do (fare) e la cui semplice traduzione  sarebbe: “Preferirei non far(lo)” ha avuto la sua “cofanata” di traduzioni fantasiose in tutte le lingue del mondo, ma in specie in quella italiana dove i tanti traduttori hanno fatto esercizio di arzigogolo perché evidentemente il nudo e crudo “Preferirei di no” o “di non farlo” doveva caricarsi di un di più letterario e poi drammaturgico; così, è piaciuto ai più ed ha prevalso l’obsoleta, accattivante, fantasiosa, contorta e improbabile traduzione di Gianni Celati: “Avrei preferenza di no”. Quest’ultima è stata adottata dallo stesso Niccolini nella sua riduzione che vede il nostro Leo protagonista.

Com’è ovvio, non potevamo non chiedergli qual è il messaggio principale, il core ghost, il nocciolo del messaggio che il presente allestimento intende trasmettere:  “Questo spettacolo mira al cuore e al cervello dello spettatore, Bartleby con il suo comportamento strano e inusitato, lo invita a ragionare con la testa e poi agire col cuore. Vuole risvegliare i “fantasmini” che si agitano tra la sua mente e il suo cuore. Gli pone, bruta, la domanda: sei stato capace nella tua vita di fare scelte che si siano poste in contrasto con la ordinarietà del sentire comune? Cerchi te stesso?, ti ritrovi ogni tanto o ti adagi al conformismo dilagante, barattando un po’ di sicurezza per un po’ di felicità? Mi creda, è uno spettacolo tosto: non fa star comodo, seduto sulle belle poltrone di stoffa ignifuga del teatro”.       

Ci permetta di seguirla su questo crinale; alcune certezze si intravvedono in questo racconto, certezze rese peraltro benissimo e con sicura efficacia dall’attenta regia di Emanuele Gamba nel rendere visivamente e cineticamente lo studio dell’avvocato simile a una fabbrica con la sua catena di montaggio, fatta di ritmi e sostanze disumane e alienanti; l’effetto è quello di amplificare la disumanità del capitalismo che sappiamo essere idea tanto cara a Melville.

Lo stesso avvocato, nonostante le ostentate premure e la pietas pelosa, applica sempre con incrollabile fierezza l’antica regola del credo capitalistico: ottenere il massimo dei vantaggi con il minimo sforzo assieme alla ferrea applicazione del principio che Max Weber ha sintetizzato nello Entzauberung der Welt, il disincanto del mondo, cioè il processo che, col crescere della razionalità scientifica, ha comportato nella cultura occidentale il ripudio delle spiegazioni che non siano spiegazioni razionali.

In fondo, sul piano intimistico, questa pièces porta in scena lo scontro di due “follie” quella irrazionale del silenzio e del rifiuto del mondo com’è e quella della razionalità che persegue il mantenimento dello statu quo.

Che dirle, ha detto tutto lei. Dico solo che in questo mondo belluino, allora come ora, sull’Amore prevale l’aggressività e la guerra, che la disumanità è frutto dell’avidità e dell’eccesso di egoismo. Il mio pensiero va ai deboli e ai giovani di ogni tempo, ma soprattutto a quelli che verranno.

C’è speranza?

L’Universo, la Terra, la Vita si svolgono secondo cicli perenni, come il sole e la notte che si alternano. Questa è la speranza: che al ciclo cattivo succeda presto quello buono. La saluto, sono quasi al “chi è di scena”. Buona vita.

Anche a lei caro Leo.

Non c’è una vera e propria azione drammaturgica nel personaggio dello scrivano e il lavoro dell’attore è davvero difficile perché avendo quasi un unica battuta di pochissime parole per tutta la durata dello spettacolo, non ha altra scelta che puntare tutto sul trucco, sul costume, sulla voce con tutte le sfumature possibili; giocare con le pause che le quattro parole della battute gli consentono; esercitare con attenzione certosina la mimica del corpo e ancor più del volto, facendo parlare le guance, gli occhi, il mento, la fronte: tutti in sostituzione dell’emissio vocis così importante per un attore che voglia caratterizzare il suo personaggio. Ecco, di tutte queste abilità il prim’attore Leo Gullotta da una prova eccellente.

Notevoli, in questo senso le scene che lo vedono apparecchiarsi un tavolo immaginario all’impiedi e mangiare con una strana voracità i biscotti allo zenzero per poi riporli delicatamente nella sua personale dispensa.

Ultima nota: tanto nel libro quanto nello spettacolo lo scrivano è attratto, affabulato dal canto degli uccelli che osserva da una finestra davanti alla quale resta immobile a guardare per ore; è perdutamente affascinato, attirato dalla luce che passa attraverso la stessa finestra, egli la desidera godendo manifestamente nell’incontro con essa.

Questo aspetto che, pare a chi scrive, fondamentale per la comprensione del dramma dello scrivano e dell’umanità che rappresenta, sulla scena del Brancati non ha avuto l’attenta sottolineatura che meritava così come invece – abbiamo saputo – è avvenuto in altri teatri. Peccato.

La ricerca della luce non è solo prerogativa degli aspiranti massoni, ma dell’Umanità intera; Bartelby come un uccello in gabbia aspira a volare con i suoi fratelli volatili incontro alla Luce, per ritrovare quel sé stesso che gli altri non comprendono; cerca con insistenza e senza esitazione il suo personale “appuntamento meno effimero” con quella “fedele stella, nella sua regione di perenne certezza” che, infine, raggiungerà solo passando attraverso quel “mucchietto di polvere livida” che diventerà.

 

 

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