Toccatevi ch’è meglio!

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Toccatevi ch’è meglio!

Non troppo vicino, non troppo lontano: in questa distanza media si trova il luogo dell’individuo tardo-moderno, che non desidera stare (troppo) solo, ma non vuole nemmeno sentirsi in pericolo nella propria intangibilità ed essere toccato.

Sfiorarsi senza toccarsi è il nostro destino, così come fanno le punte degli indici delle mani di Dio Padre e della sua creatura nell’affresco di Michelangelo della creazione di Adamo (Eva no, non c’era ancora, e comunque una volta creata se ne sarebbe stata là sotto a intrecciare le dita non con il Padreterno ma con il serpente avvolto intorno all’albero).

Se c’è una parte del corpo che oggi rappresenta la situazione precaria dell’uomo tra benessere e disagio, tra piacere e dolore, sono le punte delle dita, la parte del corpo che prevalentemente usiamo.

Toccarsi è percepito come una minaccia e allo stesso tempo come un bisogno; il contatto di pelle è importantissimo, e in ogni caso indispensabile per lo sviluppo dei bambini e per il benessere degli anziani, eppure sembriamo illuderci di credere che sfiorare le lucide superfici degli schermi di smartphone e tablet o essere accuditi da robot con un sistema di riscaldamento che intiepidisca le sue superfici sia sufficiente a sostituire il calore umano.

Oggi poi che ci viene prescritto di tenere le distanze come se fossimo camion in autostrada, oggi che non dobbiamo stringere la mano a nessuno ma salutarci volgarmente con un colpo di gomiti o di caviglie, che non possiamo scambiarci un abbraccio se non nei messaggi, oggi che non possiamo baciare né genitori né bambini, che ne è del gesto arcaico del toccare e del toccarsi, del gesto aptico protettivo o aggressivo, in ogni caso altamente comunicativo?

Dove un tempo regnava la vicinanza forzata, ora nel mondo digitale regna una solitudine scelta che minaccia di sostituire il contatto diretto.

È un dilemma acuto tra la perdita di contatto e di prossimità e la conquista di spazio.

E che dire della stridente contraddizione tra la cura e la distanza, uno degli infiniti e trascurati effetti collaterali delle misure anti-epidemia? Dell’assistenza umana – uso umano nel senso di mite, equo, civile, generoso, anche affettuoso – che dovrebbe ricevere chi è debole perché malato, chi è fragile perché molto piccolo o molto anziano, e il quale, invece del calore del tocco umano si trova di fronte una barriera di plastica: guanti, tute, scafandri, maschere. Quando non anche a una barriera di paura, che tutta quella plastica non riesce a coprire.

Eppure la pelle ha fame, ha fame di pelle non di plastica, skin hunger  la chiamano gli psicologi.

Non possiamo fiorire, né noi esseri umani né gli altri primati, senza contatto di pelle, senza essere «toccati» dagli altri.

I bambini piccoli ne hanno un bisogno assoluto, altrimenti finiscono per morire.

Il contatto fisico è indispensabile alla vita di tutti, allo sviluppo dei neonati, alla memoria dei malati di Alzheimer, al rafforzamento del sistema immunitario, alla guarigione. Il bisogno umano principale non è il sesso ma la vicinanza fisica, che dice che non si è soli, che si esiste.

Un abbraccio vero tiene insieme, le persone e le cose.

Bambini particolarmente inquieti si calmano se abbracciati, o rivestiti da tutine tipo quelle da sci ma imbottite di sabbia, che avvolgono in un abbraccio duraturo, prezioso per i corpi dei bambini autistici dispersi nello spazio.

Per non parlare del messaggio emanato dalla stretta di mano, una calda stretta fatta con tutta la superficie, dita e palmo, nelle nostre culture segnale di fiducia (apro la mano) e di controllo (la stringo con energia).

Anche il pensiero tocca. Ogni volta che pensa qualcosa il pensiero la tocca, la sfiora. La pelle è aperta al contatto con gli altri, li sfiora lanciando la relazione.

Si ritiene che il senso principe della filosofia sia la vista, il vedere (theorein) della teoria. Eppure non fu proprio Aristotele, il filosofo scienziato, a definire il tatto il principe dei sensi, di tutti i sensi il più filosofico perché prioritario ai pragmata, le cose, gli oggetti? (de anima 422-423).

Attraverso il tatto la psyché individua le cose come identiche a sé e toccando il particolare identifica l’universale.

Abbiamo interpretato la distanza e il non toccarsi come una forma di libertà e adesso la distanza imposta ci si ritorce contro.

Se non ci tocchiamo finiamo di esistere.

Il nostro esistere si sostanzia nel toccare.

Noi ci tocchiamo in quanto esistiamo.

Il nostro toccare è ciò che ci rende noi.

 

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