La Mite di Dostoevskij al Canovaccio: ottimi registi e straordinari attori

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La Mite di Dostoevskij al Canovaccio: ottimi registi e straordinari attori

“La Mite” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, adattamento e drammaturgia Valeria La Bua, con Giovanni Arezzo e Alessandra Pandolfini. Regia di Davide Arnau Toscano e Valeria La Bua, luci Davide A. Toscano e Simone Raimondo, coproduzione Teatro del Canovaccio Catania e Teras Teatro. Foto di Dino Stornello.

Sovente accade, parlando di opere tratte dai grandi classici, di ripercorrere episodi della vita artistica, personale dell’autore, circoscrivendo temporalmente l’epoca storica per meglio avvicinarsi alla comprensione delle ragioni di chi ha scritto. Qualche anno fa, partecipando all’università ad un corso monografico su Dostoieskji, compresi la sua “eterna valenza”, avendo il professore avviato per quella materia un percorso parallelo fra “Il giocatore” ed il film “Maradona di Kusturica”: anime dannate, due geni ciascuno nella propria linea di ricerca, si fanno inghiottire fin troppo dalle conseguenze delle proprie azioni.

Il “per sempre” degli scritti dell’autore russo, nato a Mosca l’ 11 novembre 1821 e morto a San Pietroburgo il 9 febbraio 1881, è talmente tangibile da poterlo  considerare una sorta di passepartout, ma non per comprendere ogni affannosa verità, quanto per rintracciare sfilacci di vita a prescindere dall’epoca dei fatti. Dostoevskij è stato un attento cronista, un osservatore del qui ed ora che lo portava a ottemperare al bisogno di capire egli stesso e di esprimere sulla carta un evento che lo aveva piuttosto colpito. Nel 1869, comincia a dedicarsi ad un racconto da inserire nella raccolta “Diario di uno scrittore”, ma solo sette anni più tardi lo porterà a compimento, essendo rimasto profondamente colpito dal suicidio di una giovanissima creatura che aveva deciso di mettere fine alla propria esistenza buttandosi da una finestra, con il conforto di un quadro raffigurante la Madonna: le cronache ne avevano parlato definendolo “un suicidio mite”. E come era nel suo stile, Fëdor Dostoevskij ne scrive, immaginando una sequenza di fatti, restituendo vita alla vittima sconosciuta attraverso il ricordo ossessivo di un marito. E qui l’ineluttabile ricerca del senso delle cose assume la sua forma più egregiamente drammatica.

Valeria La Bua e Davide Arnau Toscano, (apprezzatissimi nel novembre del 2021 con Amabili mostri, scritto ed interpretato da loro stessi e in cui parlano con originalità di Teraphobia), hanno compiuto un eccellente lavoro di regia, intuendo tutti gli elementi determinanti il successo che ha avuto e continua a mietere questa trasposizione della quale sono state richieste innumerevoli repliche, (tutte sold-out e lunghe liste di attesa). Primo fra tutti, mantenere la durezza non del ruolo ma del lavoro che il protagonista maschile fa con se stesso, portando dunque in scena dettagli importanti della personalità di Fedor Dostoevskij, dominato dal dubbio e dall’inquietudine per tutta la vita; poi, senza adoperare altro elemento scenografico che una rete in ferro, approfittando del camaleontico ambiente del teatro del Canovaccio, sono riusciti a ricostruire le pesanti, grigie, immutabili atmosfere della Russia del 1870: assenza di fascia sociale di mezzo, distanza con l’Europa, interesse allo sfruttamento dei latifondi controllati dagli zar capaci anche di sottomettere ai propri scopi la religione, assenza di riforme, scontento di operai e contadini, potenziamento dell’esercito. Infine, la felicissima scelta degli attori, poi, ha conclamato la solenne vittoria nel gradimento  degli spettatori.

Il racconto sembrerebbe essere stato scritto per Alessandra Pandolfini  e Giovanni Arezzo: due icone di bravura, sono riusciti ad offrire perfettamente se stessi ai ruoli della Mite e del marito con una recitazione totalizzante: l’una col volto, gli occhi, i prudenti gesti delle mani minute; l’altro con un monologo imponente, faticoso, rigoroso dialogo con se stesso. Il silenzio e la voce si sdoppiano, si sovrappongono in una guida registica di pregio che assurge allo scopo di interconnettere e scambiare i personaggi: quante parole riusciamo a sentire dalle silenziose riflessioni di Alessandra/la mite e quanto muto dolore giunge, invece, dai compulsivi, scrupolosi ragionamenti di Giovanni/il marito…! Una analessi per cercare risposte, non più dall’anima che giace sulla rete quanto dal se stesso in cerca di assoluzione, a cui il dolore fa intraprendere un percorso a ritroso sui capitoli del matrimonio, ma sfuggendo forse al senso di responsabilità.

Giovanni Arezzo è il marito stupefatto dalla mancanza di vita improvvisamente sopraggiunta in un corpo che fino a prima era caldo, respirava aveva dei movimenti; è quel amministratore privo di forti pietà del banco dei pegni, in cui Dostoevskij rappresenta probabilmente il suo disappunto per gli ebrei, non tutti, solo quelli economicamente forti. Nell’ interpretazione, assume nelle sua membra anche le fattezze dello stesso scrittore (come gli somiglia quando indossa il cappotto da soldato!), riesce ad ottenere quel legame fra il personaggio e l’autore che certamente era voluto, nell’ansia di ricreare quelle condizioni dialettiche e psicologiche venendone fuori malamente, come Dostoevskij fece per tutta la vita, arrestando solo a tratti il demonio dentro di sé. Giovanni Arezzo, oltre a dare una superba interpretazione del personaggio, nel racconto riesce anche in questo: esprimere il lato oscuro dello scrittore russo, quello che lo faceva bere, giocare, perdere ingenti somme, vivere con “tendenze minori sadiche”, inginocchiarsi davanti a Cristo, reclamandolo senza credergli pienamente: ecco, inginocchiato davanti alla moglie supina, senza più vita sulla rete di ferro, sembra di rivedere l”immagine del Cristo di Hans Holbein (dipinto nel 1521), da cui Dostoevskij era fortemente suggestionato.

Giovanni Arezzo, attore, regista, autore, non nuovo ai ruoli complessi, bello e dignitoso, si muta nel breve spazio del racconto in un uomo vulnerabile aggredito dai dubbi: e quanto è bravo a camminare sul profilo del senso di colpa come un funambolo che mantiene alta la tensione sulle proprie verità, lasciando allo spettatore quel vuoto rispetto alla morte di quella triste e giovane creatura. Riesce ad assumere tutta la difficoltà del compito che i registi dopo e Dostoevskij prima, gli hanno consegnato: trovare condanna o assoluzione ed anticipare un lavoro relativo alle ragioni del proprio inconscio rispetto ad un fatto passato.

 

Alessandra Pandolfini/la mite, giovanissima con un volto a cui riesce a prestare tutti i tratti dell’infelicità che l’ha segnata da bambina, la speranza che contraendo matrimonio col proprietario del banco dei pegni sarebbe cambiato qualcosa nel suo destino; la disillusione e poi l’odio e dunque il distacco.

Pronipote di Turi Pandolfini, Alessandra non ha compito meno difficile perché le parole non pronunciate che sottraggono al dialogo un interlocutore, la obbligano ad un repertorio espressivo di cui non si allenta la tensione neppure quando è distesa ormai inerme sulla rete. E’ bravissima anche lei nel trasferire ogni singola vibrazione del personaggio scritto e diretto: per l’intera durata dello spettacolo, sembra di avvertire la sua voce, sebbene sia il marito a parlare, narrando per lei ostacoli e dolori, penosi tentativi di uscire dalla povertà, disumani se rapportati a quella che è poco più di una bambina. Alessandra Pandolfini è molto giovane, ma non è l’età che la rende idonea al ruolo. Valeria La Bua e Davide Toscano vedendola, l’hanno subito riconosciuta: perfettamente calzante, anche lei bravissima nel trasmettere lo sgomento dello scrittore, il suo tentativo di darle forza e spessore quando si ribella alla freddezza del marito che l’aveva trascinata in un’illusione di normalità. Nella scena del tentativo di tradimento, quando la presenza di Efimovič (soldato e vecchio amico del marito)  è palesata soltanto dal cappotto, l’attrice è bravissima a guidare un momento di lusinghe e profferte d’amore infine non contraccambiate!

Simone Raimondo ha saputo ricreare sulla scena la luce delle candele e le ombre proiettate sembrano davvero le angosce sfuggenti ed imprendibili dei due personaggi.

Valeria La bua e Davide Arnau Toscano, attori di talento e registi promettenti, hanno sapientemente reso omaggio ad un autore piuttosto complesso, tanto dannato e geniale, riuscendo senza futili orpelli a trasferire l’illusione, l’apparente sottomissione, la banalità dell’egocentrismo, la pena dell’incomunicabilità, la solitudine nel tentativo di comunicare e il fallimento della spiegazione. La potenza letteraria di Dostoevskij assolutamente assecondata: un successo.

 

 

 

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