La Lupa di Luana Rondinelli e Donatella Finocchiaro al Teatro Stabile di Catania seduce e coinvolge

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La Lupa di Luana Rondinelli e Donatella Finocchiaro al Teatro Stabile di Catania seduce e coinvolge

Di Giovanni Verga (pubblicata nel 1880), regia di Donatella Finocchiaro, progetto drammaturgico e collaborazione alla regia Luana Rondinelli; movimenti di scena Sabino Civilleri.

Foto di Antonio Parrinello.

Donatella Finocchiaro è la Lupa/gna’ Pina; Bruno Di Chiara nei panni di Nanni Lasca, Chiara Stassi in quelli di Marietta, Ivan Giambirtone interpreta Malerba, Liborio Natali il doppio ruolo di Janu e del Prete; Alice Ferlito è Filomena, Laura Giordani la Prefica, Raniela Ragonese è Nela, Giorgia D’Acquisto, Rosa, Federica D’Amore, Lia; Roberta Amato interpreta Grazia, Giuseppe Innocente nei panni di Bruno e Gianmarco Arcadipane è Cardillo. Le scene e costumi sono di Vincenzo La Mendola, le musiche di Vincenzo Gangi, le luci di Gaetano La Mela.

Si apre il sipario: cortile d’estate, muri con intonaco a secco, usci aperti, una corte affacciata sui campi e su un cielo enorme, grilli che rubano la scena alla notte; luci oblique che proiettano ombre lunghe, leggeri sfarfallii generati dalle fiamme inquiete delle candele. E di inquieto e bruciante come la canicola delle giornate d’estate c’è il disio che infuoca il petto…

 

La drammaturgia di Luana Rondinelli non riscrive la struttura, rispetta l’articolazione degli eventi, resta ferma sulle ragioni, arricchisce comunque la trama di riprese interessanti quali le scene di musica, una delle quali vede le donne come angeliche streghe che in sottoveste si dimenano “tarantolate” e felici in una danza che compie infine il taumaturgico scopo di estasi e preghiera. Un tributo a se stesse, momento magnifico, in cui esse conquistano uno spazio privato tutto per sé, lontano dall’occhio che giudica, che le guarda miope e di sbieco come se la liberazione che parte dalla carne che vibra sia non culmine di gioia ma di vergogna.

Vincenzo la Mendola, scenografo e costumista intuitivo che da senso ad ogni oggetto adoperato in cui rende materia il senso della storia, qui espone con semplicità il modo di vivere, le idee ed i pensieri della vita dei campi. Canottiere sotto le camicie, panciotti sopra di esse, il pantalone scelto sdrucito e con la gobba alle ginocchia; le sottane delle donne che facevano scivolare bene l’abito a mettere e a levare.

Donatella Finocchiaro, regista e protagonista, è la Lupa magra con un seno importante, i movimenti più sensuali che animali: più Gna’ Pina (nel racconto, il nome viene adoperato pochissime volte) che Lupa, non smonta comunque il modello descritto da Giovanni Verga che l’aveva scelta operaia, di nero vestita, solitaria e sciolta dal branco e dai vincoli per accostarla e contrapporla alle donne sofisticate della borghesia del nord, comunque disinvolte nelle relazioni con uomini diversi, avvantaggiate dal molto tempo a disposizione; un approccio calcolato contro quello verace della Lupa, donna dalla pelle bruciata dal sole e mani callose: l’inevitabile spessore del velo dell’ipocrisia.

Quasi un secolo dopo, Clarissa Pinkola Estés racconterà la psiche femminile classificando e circostanziando ogni comportamento come analogo all’istinto ferino del lupo. Qui, più donna che bestia, senza spingere oltre il senso originale, la Lupa si porta dietro le altre donne (almeno nella prima parte), non completamente estranee anch’esse ai richiami dei sensi, e anche più estroverse, disposte a condividere notti di passione e a gettarsi comunque ai piedi della Madonna per rientrare vergognose, o quasi, dal desiderio. L’intelletto passivo, agente che non mette in relazione Dio e l’uomo, ma sprona soltanto la parte sessuale di noi, a cui fatica a sottrarsi anche il parroco (Liborio Natali) che, se non se la porta in processione, non riesce a non destinare pensiero a quella donna che risale i campi con passo svelto e nervoso, scivola via dal suo giaciglio posseduta da un vigore fatale che le fa cercare come una preda “il povero” Nanni Lasca (Bruno Di Chiara) e ordire un piano incestuoso ai danni della meschina (davvero) figlia. La Lupa è l’unica che non chiede mai perdono, neppure alla carne della sua carne, di ciò che è e che sente, non si cela, mistifica: alza le braccia al cielo e le fa cadere di getto lungo il suo corpo mostrando ciò che è a partire da se stessa.

Di ogni donna, non si parla esteticamente, si misurano centimetri e chili, ma viene magnificato il desiderio, la voglia di provare il bisogno insopprimibile di cercare il corpo disiato…

Una versione che convince, affatto scremata, elaborata su una struttura di conoscenza, mimica e concettuale: i livelli di scoperta nascosti sempre nel modo di raccontare del Verga sono qui avvicinati da una curiosità che non disturba: le scene d’amore affondate nei chiaro-scuri dello studio di luci di Gaetano La Mela, rileggendo la novella, possono essere indovinate, scorte dietro il gioco narrativo caro allo scrittore che scriveva come un cronista lasciando al lettore la libertà di scorgere altri sensi, altri aspetti. La grandezza del Verga, così superficialmente spiegata a scuola (ahimé, almeno ai miei tempi) è manipolata con attenzione, la responsabilità d’interpretarla consegnata ad un gruppo di attori che per la gran parte non mi è estranea. Roberta Amato, Giorgia D’Acquisto, Federica D’Amore, Alice Ferlito, Laura Giordani, Raniela Ragonese costituiscono lo straordinario coro con momenti solisti che magnificano il senso della drammaturgia di Luana Rondinelli e della regia di Donatella Finocchiaro, entrambe lungimiranti nell’accordare una larga fetta di esposizione alle donne che sono non solo contro-canto della voce solitaria della Lupa, ma liriche allegre, ora affrante e timorose, sempre al ritmo di quel respiro che si fa sudore, da noi in Sicilia quando il caldo della notte si scambia pochi gradi con quello del giorno.

E gli uomini –  GianMarco Arcadipane, Bruno Di Chiara, Ivan Giambirtone, Giuseppe Innocenti, Liborio Natali – divisi fra la fatica, la gioventù che riverbera nelle loro vene, la tentazione tamponata dalle preghiere compulsive, sono l’anello di chiusura, quello che gira all’esterno dei giochi delle donne: intorno ad esse, si agitano soggiogati dalla religione, slanciati dall’istinto, aggrediti dalla confusione. E non è solo un bel vedere, ma assistere ad una recitazione di pregio.

Infine, i movimenti scenici di Sabino Civilleri palesano l’atteggiamento che ciascuno ha per sua natura e senza ingrassare di velleità inopportune conferiscono una forza alle scene in cui, oltre al timbro calibrato della recitazione, lo spettatore scorge e gode delle cose che sono e sempre sono state, quelle che alla luce del sole si chiamano “valori sacrosanti”, ma fra “il vespero e la nona” si stemperano nel prevalere dei sensi, in essi si agitano e poi cercano pace.

Nella novella del Verga la trova nel compimento della tragedia, annunciata dalle prime righe; nella drammaturgia di Luana Rondinelli, risorge a donna nuova…

 

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