“I Mafiusi” di Rizzotto e Mosca riscritto e diretto da Francesca Ferro

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“I Mafiusi” di Rizzotto e Mosca riscritto e diretto da Francesca Ferro

Si sono concluse al Teatro Angelo Musco le nove repliche dello spettacolo “I Mafiusi”. diretto e riscritto da Francesca Ferro. Prodotto dall’associazione culturale ABC, è stato in cartellone da giovedì 27 aprile a domenica 7 maggio e si è avvalso della partecipazione di nove talentuosi attori: Rosario Minardi, Francesco Maria Attardi, Mario Opinato, Adriana Aiello, Pasquale Platania, Fabio Costanzo, Alfio Belfiore, Francesco Macaluso e con Salvo Saitta. Aiuto regista, Bianca Caliri, direttore di scena, Franco Sardo; Scenografia a cura di Salvo Mangiagli e costumi di Isabella Sturniolo. Foto di Gattopino.

Francesca Ferro ha adattato la nuova drammaturgia dello spettacolo da “I Mafiusi de la Vicaria”, scritto da Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca nel 1863, i quali lo formularono per il teatro si, ma per rappresentarne estratti e scenette per strada e teatrini di quartiere. Lavoro che ebbe tale approvazione da parte del pubblico da essere replicato a lungo e persino rappresentato al cospetto di Umberto I a Napoli. L’attrice, autrice e regista, innegabile figlia d’arte, autentica ed originale nella valutazione dei soggetti da rappresentare, ha scelto un tema semplice nella stesura ma piuttosto complesso nelle ragioni: “Fino a quel momento – spiega Francesca Ferro – la mafia era considerata come qualcosa di positivo: il mafioso dava alla gente quelle risposte in cui le istituzioni annaspavano come una sorta di Robin Hood dotato di un fascino esotico Un fascino che purtroppo ancora oggi, in alcuni casi, continua ad essere esercitato. Anche nelle opere moderne – continua la regista – c’è sempre il rischio di rendere i personaggi mafiosi un po’ troppo accattivanti, quasi degli influencer ante litteram. Nella mia messa in scena ho cercato invece di sottolineare la crudezza, il lato oscuro di un mondo che già dall’Ottocento si stava trasformando, assumendo dinamiche terrificanti, violente, di prevaricazione. Ho voluto marcare ancora di più quello che Rizzotto aveva scritto; anche il finale non lascia spazio a dubbi interpretativi”.

Il testo parla nello specifico di camorra e camorristi, in un tempo in cui la parola “Mafia” era poco utilizzata per indicare associazioni di delinquenti con scopi esclusivamente criminali. Gli scrittori ne vollero raccontare dal punto di vista del carcere, attenzione scarseggiante sino a quel momento; e ne parlarono facendone esperienza, sebbene non fossero né scrittori e tanto meno criminali. Occorre precisare, infatti, che Gaspare Mosca era un maestro elementare che avvicinandosi a titolo “istruttivo” ad un boss della camorra, certo Gioacchino D’Angelo, aveva indugiato con lui nel farsi narrare abitudini, modi di comunicare, gestualità dei camorristi; nell’opera, il personaggio reale assumerà poi il nome di Gioacchino Fungiazza. Dal canto suo, Rizzotto aveva interrotto gli studi giuridici per avviarsi al mestiere dell’attore, ma ne aveva conservato la memoria, riuscendo ad aggiungere dettagli maggiormente pertinenti al progetto.

Sembra, comunque, che la parola mafioso derivi da camorra e da camorrista declinata nell’accezione di associazioni per delinquere; mentre nella prima metà dell’800, nel mezzogiorno d’Italia, la Mafia era e restava quella sorta di confraternita a cui la vittima di un soppruso che le derivasse dallo Stato o da un prepotente qualsiasi, potesse rivolgersi per ottenere una giustizia che un pover uomo avrebbe faticato a farsi riconoscere. Col tempo, non è mistero per alcuno purtroppo, rinnegare lo Stato come sovranità, o peggio insinuarsi nelle pieghe della legalità e metterne in discussione le norme, anzi in qualche modo riscriverle a proprio giovamento, ha determinato una corruzione ed infamità gigantesche. Francesca Ferro è proprio a questo istante che si ferma per declinare la sua personale esposizione: ripropone “I Mafiusi de la Vicaria”  eludendo la specifica, dunque adatta la riduzione per questo spettacolo conservando l’epoca (visibile nei costumi curati da Isabella Sturniolo) e il vocabolario, dimostrando che il linguaggio “mafioso” mantiene la medesima densità, avvisabile soprattutto nelle dimensioni ridotte all’interno delle carceri dove il vero mafioso organizza conciliaboli con precise gerarchie e regole ineludibili.

La scena si apre sul cortile di un carcere palermitano dell’800, una regia galera, fredda e severa: cubi di pietra, panche di legno, e inferriate che tengono dentro tutti, carcerati e carcerieri. Solo uno (Francesco Macaluso, bravissimo, allievo della regista) vigila, scivolando fra le pareti, prestando ascolto e veicolando informazioni agli uni e agli altri. Gioacchino Fungiazza (interpretato egregiamente da Rosario Minardi), delinquente con forte personalità e carriera riconosciuti, è uomo di gran rispetto, sia per ciò che è stato fuori, e soprattutto per l’influenza che riesce ad esercitare su un gruppo di altri sette malavitosi, tutti “mafiusi”, perché tutti in relazione con un groviglio di convenienze: come un politico di alto profilo (Pasquale Platania) ed un uomo di cultura, un professore (Adraino Aiello), forse coinvolto per errore o equivoco. Salvo Saitta, Francesco Maria Attardi, Fabio Costanzo e Alfio Belfiore sono i picciotti, quelli che fregano e si fanno fregare, inclini alla rissa e piuttosto permalosi: trascorrono la giornata giocare a carte e rivendersi il pane e la luce, in una sorta di giro infinito come la condanna che alcuni di loro devono scontare. Fra di essi uno (Francesco Maria Attardi) ha modi più elaborati, e sembra nascondere un segreto, forse un tormento. Successivamente, entra per l’ennesimo arresto, un camorrista di esperienza (Mario Opinato): la sua militanza gli ha fatto appuntare sul petto una porzione di onorificenza e Gioacchino Fungiazza, una volta riconosciutolo, gli paleserà tutta la sua stima, assoldandolo in breve tempo. Sebbene le giornate sembrino tutte  uguali con un susseguirsi di albe e tramonti, di luce e di buio, di ore d’aria e di isolamenti, i fermenti sono percettibili e inquetanti. Francesca Ferro, non è nuova ai progetti sugli e negli ambienti carcerari, strutture detentive in generale: è scaturito da un lavoro fatto a sfondo sociale all’interno di un carcere catanese il pregevole e pluri replicato “Sogno di una notte a Bicocca” da lei scritto, diretto ed interpretato insieme ad un altro nutrito drappello di eccellenti colleghi. Anche la indimenticabile Ileana Rigano.

Un messaggio che arriva schietto, ma al tempo stesso lontano dai luoghi comuni che poco sanno raccontare ma che molto colore hanno in ordine a scalpore e massificazione del fenomeno mafioso. La regista ci racconta una storia ambientata in altri tempi e questo ci piace moltissimo da un punto di vista scenografico perché ci immerge nel passato che essendo tale assume l’aspetto di un fumetto, che comumque sia ha sapore di artistica bellezza. La sua regia è impeccabile, brava davvero Francesca Ferro ad individuare nove attori bravissimi, indovinandone il ruolo. Un esempio per tutti  un attore che mi ha lasciato priva di commenti opportuni, è stato Adriano Aiello, di cui Francesca è riuscita ad evidenziare il lato drammatico “parlato”: egli interpreta un povero uomo colto e benestante finito in mezzo a quella pletora di pasta diversa dalla sua e si barcamena come può per adattarsi ad un tipo di vita a lui sconosciuto, ma senza rimanere intrappolato dal lato oscuro della circostanza. Adriano Aiello, noto per essersi specializzato negli studi clowneschi, di cui io stessa ho visto un paio di magnifici lavori e in cui la sua bravura come mimo e come clown è indiscutibile, interpreta qui con il suo corredo di candore un personaggio che è lo spartiacque, all’interno della prigione, fra i peccati altrui e il senso della carità, così vulnerabile che lo stesso Gioacchino non permetterà agli altri di vessarlo; ed infine sarà così mutevole nel volto quando improvvisamente si troverà di fronte all’aspetto  più sconosciuto per un uomo di lettere qual egli è e che è la ferocia cui l’uomo può giungere. Un Adriano Aiello davvero impeccabile, in una prova d’attore degna di essere a lungo ricordata.

Rosario Minardi è Gioacchino Fungiazza: identico alle illustrazioni che ho potuto vedere del suo personaggio e che ho avuto agio di trovare sul web. Bravo, bravissimo: durante le sue quiete riflessioni come sa essere tagliente, virare alla ragionata cattiveria, esprimerla in forma di virtù.

Salvo Saitta è il picciotto anziano, quello che smussa le occasioni, ma al tempo rivendica il proprio peso: è un grande attore capace di prendere di petto qualsiasi ruolo e cucirselo addosso con arte e disciplina.

Pasquale Platania, il suo naturale elegante e garbato piglio conferisce, al politico ammanigliato che interpreta, quella seriosità ragguardevole.

Fabio Costanzo e Alfio Belfiore, altre due felicissime scelte: interpretano due ragazzotti un po’ balordi, sempre in mezzo quando c’è odore di guai, con l’insana incoscienza che la giovane età detta loro, lontana dalla rassegnazione; risultano simpatici, quasi innocui per poi mutare improvvisamente a favore del male.

Mario Opinato, il volto che recita, gli occhi vivi che anticipano la parola ed il gesto: anche lui perfetto per il ruolo del camorrista furbastro ma ossequioso delle regole, che non patisce in ogni caso enfasi di confronto.

Francesco Maria Attardi ha un ruolo difficile, ed è stato bravissimo ad entrare ed uscire dalla innumerevoli sfumature che la sua interpretazione necessita per insospettire, turbare ed inquietare.

Francesco Macaluso, il carceriere, bravo nel rivestire subdolamente il proprio ruolo.

Infine, un plauso alla regista che sul palcoscenico si è concessa per pochi secondi, per non levare istanti agli attori dei lunghissimi applausi che sono stati tributati a questo magnifico lavoro, dettagliato, magicamente scenografato, sapientemente vestito ed illuminato. Una squadra di nove artisti superbi, scelti con acume, indirizzati e qualificati nei ruoli scelti ma lasciati allo stesso tempo liberi di esprimersi. Un lavoro di sqaudra persuasivo ed efficace.

Una frivolezza a margine di quello che per un istante è sembrato un “toto-teatro”: c’è stato chi ha ribattezzato come Placido, Giuseppe Rizzotti, chi affermava che Rosario Minardi fosse, oltre al protagonista anche lo scrittore del testo originario. Questo teatro dunque è anche curiosità, di quella che ti fa andare a cercare ciò che non ricordi oppure che non hai mai saputo e che hai finalmente la possibilità di imparare. Brava Francesca Ferro. Bravissimi tutti.

 

 

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