“Cirasedda non abita più qui”, al Canovaccio, lunghissimi applausi per Vincenzo Ricca, Roberta Amato, Alice Sgroi e Nicola Alberto Orofino

Home Spettacoli Catania e dintorni a teatro “Cirasedda non abita più qui”, al Canovaccio, lunghissimi applausi per Vincenzo Ricca, Roberta Amato, Alice Sgroi e Nicola Alberto Orofino
“Cirasedda non abita più qui”, al Canovaccio, lunghissimi applausi per Vincenzo Ricca, Roberta Amato, Alice Sgroi e Nicola Alberto Orofino

“Cirasedda non abita più qui”, scritto da Roberta Amato ed Alice Sgroi; diretto da Nicola Alberto Orofino, assistente alla regia Gabriella Caltabiano; collaborazione alle scene di Vincenzo La Mendola. Cirasedda è interpretato da Vincenzo Ricca. Lo spettacolo è prodotto da INVENTO. Foto di Dino Stornello.

Ogni storia racconta un teatro.

Perché la vita lo è: esposizione del sé per bisogno, vezzo, conforto. Forse salvezza.

“Cirasedda non abita più qui” narra uno spicchio di vita sbucciata in un angolo che la gente manco lo sa dove sta, se nella propria città o da un’altra parte, tanto è lo stesso perché ci vuole poco a stabilire una lontananza: basta disinteressarsi e tutto diventa altrove, si infila nella parte più stretta dell’imbuto per sparire dentro lo scarico dei dimenticati, considerati scorie, archiviati come non utili, non necessari.

Alice Sgroi e Roberta Amato osservatrici non imparziali, scrivono ispirandosi ad un fatto di cronaca; Nicola Alberto Orofino sceglie una regia attenta ed affettuosa: come sempre, presta la propria sensibilità ad un lavoro che speciale lo appare dai primi istanti; Vincenzo Ricca interpreta Cirasedda, occhi come ciliegie, sguardo di un dodicenne che assume in tutta la sua piccola vita la sua già troppo matura visione del mondo; Il teatro del Canovaccio, via Gulli a Catania, – magico, lì a sinistra della Via Vittorio Emanuele venendo dal lato del mare – diventa il piccolo appartamento, un balcone, la cucina, una stanza da letto, dove la storia ha la sua giornaliera, ciclica ripetizione.

Vincenzo Ricca/Cirasedda entra dalla fine, spogliandosi di un abito a giacca, attraversa una povera tenda a strisce scaccia-mosche e ricoprendo le distanze temporali a ritroso, col suo linguaggio comincia a raccontare che lui sta sul pisolo di casa, ad accogliere e congedare i clienti della sua mamma, a ripetere la filastrocca prima di entrare, a giocare con le figurine, a mangiare le minnuzze di ricotta. Parla con la sua mamma, Cirasedda, sorride e le da forza, perché lui lo sa che lei è sfruttata e non è felice: la natura le ha dato la bellezza e gli altri l’hanno sciupata, se ne sono approfittati abusandone senza rispetto. E Cirasedda cresce in mezzo a tutto questo scambiando parole con i vicini di casa, “Sorpresina, il Cinese, la signora Crisafulli, lo Scicchigno”, occasioni perdute anche loro, stelle attaccate ad un pezzo di cielo che guarda un mondo diverso. Cirasedda ha dodici anni e tutto il giorno si confronta con questa giostra: il costante urto del letto contro la parete scandisce come il rintocco di un orologio fermo la sua giornata che si articola uguale dalla mattina alla sera e fa tutto lui: cucina, rassetta, gioca con le figurine, ascolta le mute parole della mamma e declama la filastrocca.

Alice e Roberta adoperano un linguaggio reale e non indugiano nel romanticismo a cui piegano spesso le storie di periferia: sono croniste entrambe di episodi a cui hanno prestato ascolto facendone esperienza emotiva. La bravura incredibile di queste due nuove autrici, originali, accorte e preparate stabilisce la differenza fra i tantissimi che prendono spunto da una storia da cronaca nera di evidenza social-popolare e ne ricavano un’occasione di marketing ed il realismo narrato come all’epoca di Verga, Capuana che prestavano la parola agli sconfitti, ai dimenticati. E lo fanno con sapienza in un’epoca in cui esistono tanti modi per non sparire dall’orizzonte, in cui anche il più inadeguato possiede un cellulare che gli dia l’impressione di essere sempre “onlife”: esse dimostrano che per rimanere risucchiati dal buco nero della solitudine bastano soltanto il disappunto e l’indifferenza. Raccontano Cirasedda, la sua lingua diversa, le strade secondarie non percorse, i luoghi lontani dalla geografia e dall’interesse; nessuna curiosità di verifica, in questi luoghi, – sud del mondo dappertutto -, le troupe televisive fanno le loro incursioni quando capita un evento morboso, per poi sparire e dimenticare.

Vincenzo Ricca (già ampiamente applaudito ne “I moschettieri”) è letteralmente strepitoso: interpretazione di totale immersione nel personaggio, tanto da sembrare esattamente un dodicenne, per poi evolvere nel futuro che lo vedrà grande e laureato. Fa parlare gli occhi da “cirasa” con lo stupore infantile di chi trova il bene in ogni cosa; si muove, articolando gli spazi, dà vita ai consueti rumori casalinghi come se sul palcoscenico ci fossero oggetti d’arredo. E fa arrivare forte, disperato l’amore per la mamma Carmela: quando le parla dalla cucina alla stanza da letto, trasferisce tutto il vuoto di quella povera donna alienata dalla vita di cui però giunge l’unica ragione di sopravvivenza che è la creatura che parla con “Sorpresina, il Cinese, la signora Crisafulli, lo Scicchigno”, gioca con le figurine, mangia le minnuzze di ricotta e recita la filastrocca.

Procedendo verso l’uscita, lo spettatore porta con sé una grandissima commozione, la conserva a lungo oltre i consueti commenti nel foyer del teatro, insieme all’istinto di cercare occhi di cirasa nei volti della gente…

 

Condividilo:

Lascia un commento