A Sinistra c’è un “caso Catania” e un “caso Sicilia”?

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A Sinistra c’è un “caso Catania” e un “caso Sicilia”?

Riceviamo una lettera,pubblicandola integralmente, da parte del Seg. Prov. di Art.1 di Catania Paolino Mangano sulle vicende giudiziarie che stanno colpendo in questi giorni una parte della sinistra Catanese.(n.d.r.)

L’interrogativo è circolato in questi ultimi giorni su tutti gli organi di stampa cartacei e online locali a commento di vicende giudiziarie in cui sono emersi intrecci inquietanti tra criminalità organizzata, mondo imprenditoriale, forze politiche e sindacali anche se con diversi esiti, rispetto ai soggetti attori: alcuni raggiunti da provvedimenti restrittivi e indagati in attesa di sviluppi e altri come comparse in attesa di approfondimenti e non indagati.
Da molti anni (troppi?) sono impegnato politicamente e socialmente, in C.G.I.L. e nella Sinistra politica ( P.C.I. – P.D.S. – D.S. – P.D. – Art.1 -), ambienti in cui fin dal primo momento è sempre circolato, questo specie di ‘mantra’: “il caso Catania”.
Che non fosse solo un ‘genere letterario’ si deduce dal fatto che spesso le contese tra i gruppi dirigenti di queste formazioni sono state oggetto di commissariamenti dall’esterno operati dagli organismi superiori.
Il fatto che si siano ripetuti in questi cinquant’anni mi fa dedurre che gli interventi non erano finalizzati a risolvere il problema quanto piuttosto a ‘comprare tempo’ per consentire agli stessi soggetti protagonisti di trovare le mediazioni per proseguire la gestione con qualche equilibrio di potere leggermente modificato, ma mai per un cambiamento di fase e per un rinnovamento del personale politico; i dirigenti commissariati, quindi avevano la licenza di continuare a rafforzare il proprio potere senza visione del futuro se non quella della collocazione interna o (da un certo periodo in poi) istituzionale.
Non contava più essere dirigenti di partito, ma contava avere incarichi istituzionali. In pratica si sono uccisi i partiti e la loro democrazia interna e si sono consolidate le posizioni nelle istituzioni (nazionali, regionali, comunali, perfino consigli di quartieri, per non parlare dei posti di sottogoverno).
Da lì il passo è stato facile. Non più l’interesse collettivo, ma solo quello personale; non più le alleanze per le linee politiche generali, ma i cartelli di capetti (o capibastone, come meglio credete) per scalare posizioni di potere nelle istituzioni.
Non si decidono negli organismi congressuali le linee politiche per migliorare la società, debellare le ingiustizie sociali, perseguire l’eguaglianza. programmare il futuro e solo dopo designare le donne e gli uomini capaci di rappresentare nelle istituzioni i programmi delineati nel partito. Di fatto gli organismi congressuali sono stati depotenziati o addirittura quasi mai attivati.
La conseguenza di questo nuovo modo di concepire la politica è stata lo smantellamento del rapporto con la tanta declamata base e quindi l’abbandono della rete territoriale delle strutture (le mitiche sezioni). Qualcuna, almeno fisicamente, ha resistito perché qualche padrino danaroso (per via degli incarichi istituzionali) mollava i soldi dell’affitto.
Tutti siamo diventati ciechi, sordi e muti. Con qualche eccezione subito isolata e mortificata.
Dalle reazioni che (non) ci sono state fino ad oggi non sembra che lo scenario possa cambiare. Nessuno dei vertici (a mia conoscenza) è intervenuto e quindi suppongo che nulla cambierà. Prenderà il sopravvento la convinzione che certe notizie, anche se vere, debbano essere combattute (peggio ignorate) per il sacro dovere che prima di tutto bisogna salvaguardare il buon nome del ‘marchio’. Poi, dopo, passata la tempesta si vedrà. Si troveranno i nuovi equilibri. Si insedieranno nuove ‘famiglie’ per tirare a campare qualche altro decennio.
Queste non sono riflessioni estemporanee: le esprimo dall’esterno senza acrimonia (sono uscito dal PD dopo aver provato in tutti i modi di dare il mio modesto, ma chiaro contributo per cambiarlo) e dall’interno (sono ancora iscritto alla C.G.I.L.) sempre in posizione critica verso la commistione partito-sindacato non come confronto di idee, ma come macchina di consenso elettorale che, giocoforza, ha portato agli intrecci poco chiari di cui oggi si parla. E mi dispiace che, per quel che ne so, non ci siano prese di posizione e di distanze significative sia nelle file dei dirigenti sia nella base, a dimostrazione che l’unico interesse non è il bene comune, ma solamente la preoccupazione di non disturbarsi reciprocamente in attesa di sviluppi che non ci saranno, se non c’è la reazione di chi vuole rinnovare veramente partito e sindacato per riportarli alla loro originaria missione: il bene comune della società e la difesa dei lavoratori.
Quando nel 2017 un gruppo di compagne e compagni abbiamo dato vita ad Articolo uno per smuovere le acque nello stagno che si era creato molti compagne e compagni (in particolare della C.G.I.L.) hanno mostrato interesse, ma è subito svanito per il fatto che a questa nuova formazione avevamo dato un indirizzo che nulla aveva a che fare con interessi di cordate e clientele. Molti che avevano promesso di iscriversi hanno poi riallacciato rapporti con le vecchie logiche di prima.
Io spero che queste vicende diano a molti compagne e compagni il coraggio di rompere questi legami e di riacquistare la libertà di operare per raggiungere gli obiettivi che sono stati sempre patrimonio della Sinistra.

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