Vittorio Emanuele III, rientrino le spoglie ma non si dimentichino le colpe

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Vittorio Emanuele III, rientrino le spoglie ma non si dimentichino le colpe

“In un’epoca segnata dal progressivo smarrimento di Memoria e valori fondamentali il rientro della salma del re Vittorio Emanuele III in Italia non può che generare profonda inquietudine. Anche perché giunge alla vigilia di un anno segnato da molti anniversari, i 70 anni della Costituzione che nacque nel solco del referendum attraverso cui l’Italia scelse di abrogare la monarchia ma anche gli 80 anni dalla firma delle Leggi Razziste che per primo proprio il sovrano di casa Savoia avallò nella tenuta di San Rossore a Pisa. Era il 5 settembre del 1938, pochi giorni ancora e Mussolini le avrebbe annunciate alla folla entusiasta radunatasi in Piazza Unità d’Italia a Trieste. Bisogna che lo si dica chiaramente, in ogni sede: Vittorio Emanuele III fu complice di quel regime fascista di cui non ostacolò mai l’ascesa e la violenza apertamente manifestatasi sin dai primi mesi del Ventennio. Nessun tribunale ebbe mai modo di processarlo, per quelle gravi colpe. Cercheremo di colmare questo vuoto con una specifica iniziativa, nel prossimo mese di gennaio. Per chi oggi vuole farne un eroe o un martire della Storia, per chi ancora chiede una sua solenne traslazione al Pantheon, non può che esserci una risposta: nessun onore pubblico per chi porta il peso di decisioni che hanno gettato discredito e vergogna su tutto il paese. L’Italia non può e non deve dimenticare”. Lo afferma la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni commentando il rientro in Italia delle spoglie di Vittorio Emanuele III.
Tornino pure, non è bello perseguitare i morti ma il ricordo dei misfatti compiuti non deve essere disperso. Del “piccolo” sovrano savoiardo non sono solo gli ebrei a doversi dolere visto che la sua casata molto a fatto a danno delle popolazioni del Sud Italia e, quindi, della Sicilia.
L’unità d’Italia, infatti, nella mente dei Savoia non è stato altro che un “allargamento” del piccolo regno di Piemonte, tant’è che Vittorio Emanuele II non pensò neppure vita ad una cronologia di regnanti italiani, assumendo il titolo di “I” ma continuò tranquillamente quella sabauda. Qualche anno dopo, invece, Guglielmo IV re di Prussia, con un’opposta considerazione assunse il nome di Guglielmo I di Germania. E, a riprova di questa tentata “colonizzazione” del resto d’Italia, i Savoia “piemontesizzarono” tutto: dalle leggi alle tasse, condizionando gravemente la vita del Paese. In pratica furono i re di un Piemonte che aveva annesso gli altri Stati italiani. Ci si trovava, inoltre, davanti ad una monarchia assolutamente chiusa a qualsiasi forma di cultura, di modernità o di nuove concezioni. Vittorio Emanuele II, Umberto I e Vittorio Emanuele III furono campioni di ignoranza e di grettezza, racchiusi nei loro preconcetti e nel “loro piccolo mondo” fuori da qualsiasi realtà e, certamente, da quella Europa che poneva le fondamenta del progresso sociale e civile.
Il loro sistema di governo, poi, sfiorò la tirannide. Mazzini e Garibaldi furono da loro condannati; il generale Fiorenzo Bava Beccaris ne eseguì gli ordini cannoneggiando i cittadini di Milano, Crispi ne sostenne la politica aggressiva e guerrafondaia (Vittorio Emanuele II riteneva che gli “italiani non sarebbero stati mai veramente rispettati fino a quando non avrebbero creato allarme e trepidazione in Europa”).
Tutti loro furono nemici del Parlamento e della democrazia rappresentativa; tutti, come sostengono quasi unanimamente gli storici, ebbero poche idee ed incolori. Mussolini ne soddisfece i sogni di grandezza. Nell’ottobre del 1922, il piccolo e rachitico Vittorio Emanuele III avrebbe potuto far spazzare i fascisti della marcia su Roma. Eppure non lo fece, nominò primo ministro Mussolini, lo assecondò, firmò le leggi razziali e ratificò l’entrata in guerra a fianco della Germania nazista. Non una volta, durante l’intero conflitto, e neppure dopo, Vittorio Emanuele disse qualcosa di fronte all’immane massacro che l’Italia, o meglio il suo dittatore, aveva contribuito a scatenare; non una sola parola mentre i nazisti massacravano e deportavano i suoi sudditi, la sua gente, gli italiani. Al contrario il kaiser Guglielmo II, all’avvento di Hitler, da suo esilio olandese disse: “Mi vergogno di essere tedesco”. L’unica azione di cui fu capace il “piccolo re” fu quella di fuggire di nascosto, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, per non cadere nella mani dei tedeschi ma lasciando allo sbando l’esercito e l’intera nazione.
Infine, l’onestà non fu mai il loro punto forte: colloqui privati e sempre smentiti, fughe extraconiugali e scandali economici videro protagonisti i vari sovrani a seconda delle varietà delle propria indole. Sovrani, infine, che assolutamente mai hanno dimostrato di avere a cuore il benessere degli italiani. Nel 1893 diversi giornali sottolinearono che il re percepiva un indennizzo, esente da tasse, di 14 milioni di lire all’anno; molto più della regina Vittoria che regnava sul ricco e potente Impero britannico e ancora più dei presidenti di Francia e Stati Uniti che ricevevano circa 2 milioni; solo lo zar riceveva di più.
Poteva essere amata dagli italiani una dinastia che parlava una lingua straniera (francese o piemontese), che li fece massacrare in tutte le parti del mondo (Abissina, Albania, Cina, Eritrea, Russia, Grecia), che non seppe offrire loro lo stesso progresso che si registrava allora in stati come la Francia e l’Inghilterra, che consentì l’imposizione della dittatura nazi-fascista diventandone spesso complice? Certamente no. Vittorio Emanuele III come Mussolini, come Hitler.
Per quanto riguarda i siciliani, la questione con i Savoia è ancora più grave. Infatti, a tutto quello che loro hanno commesso per l’intera Italia, si aggiungono i misfatti di cui si sono resi protagonisti nel Meridione e in Sicilia. La storia la scrivono i vincitori e quella della guerra contro i Borboni di Napoli non è sfuggita a questa regola. La Sicilia di quell’epoca, diversamente da come la descrivono i libri ufficiali di storia, non era affatto la landa desolata, povera, abitata da selvaggi analfabeti. Al contrario, l’isola era attiva e, se non ricca, sicuramente non misera. Le aziende artigiane prosperavano, il commercio ricopriva una notevole importanza e l’industria dello zolfo, con l’estrazione e l’indotto, era la maggiore al mondo. Nel contempo il turismo, quello d’élite, cominciava a muovere i primi passi a Taormina e Palermo. Non si trattava certo di una Sicilia “felix” ma certamente la situazione non era affatto disperata. La sua borghesia, poi, era una delle più avanzate in Europa che, nelle scia delle rivolte di quell’anno, fu l’unica ad avere successo nel mitico 1848: i Borboni furono cacciati dall’isola e vi fecero ritorno solo dopo un anno. Ma la rivoluzione non fu fatta perché mancava il pane ma perché i siciliani volevano una più ampia autonomia politica.
Passarono gli anni e arrivò il maggio del 1861. Giuseppe Garibaldi sbarcò a Marsala e la gente credette che era arrivato il riscatto della Sicilia, almeno dei ceti politici e imprenditoriali. Non ci fu cosa più falsa. Sottratto il governo dell’isola a Garibaldi, i piemontesi cominciarono una vera e propria colonizzazione. Furono inviate truppe di occupazione e funzionari che, con zelo certosino, prosciugarono tutte le risorse economiche depositate nei vari istituti di credito e imposero tasse esorbitanti. Il risultato fu che l’economia siciliana crollò, decadde la piccola e media industria, e tutti i capitali si concentrarono nelle mani di vecchi e nuovi ricchi. Il governo piemontese, inoltre, per penetrare nel tessuto sociale di Palermo non si fece scrupolo di giovarsi di delinquenti locali, sostenendolo in qualsiasi maniera, che divennero le basi del fenomeno mafioso che sarebbe esploso pochi anni dopo. Una splendida ricostruzione di questi fatti è esposta nella commedia “I mafiusi della Vicaria” scritta da Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto e messa in scena per la prima volta nel Teatro S. Anna di Palermo nel 1863.
Ecco, comunque, cosa scrive lo storico Dennis Mack Smith sui rapporti tra Vittorio Emanuele II e la Sicilia:
“Per due volte il re, recatosi a passare alcuni giorni nell’Italia centro-meridionale, sconcertò i suoi nuovi sudditi comportandosi in modo insofferente e incivile, mancando all’ultimo momento ai ricevimenti ufficiali, o non rivolgendo la parola a nessuno, e non toccando cibo ai banchetti offerti in suo onore. «Odiava parlare in italiano», raccontava uno straniero che lo conosceva bene; in ogni caso, i dialetti meridionali erano incomprensibili a un piemontese come Vittorio Emanuele la cui lingua preferita non era l’italiano ma il francese o il dialetto piemontese. Anche suo figlio, il principe Umberto, ugualmente privo di tatto, parlava con imbarazzante disgusto di Napoli e dei napoletani.
Naturalmente le classi colte del Meridione si sentivano offese da tutto ciò e vi vedevano una ulteriore prova del fatto che le loro regioni erano trattate come una colonia, una terra di conquista. Furono imposte ovunque le leggi del Nord, alcune delle quali, come le norme sul centralismo amministrativo, il sistema giudiziario e il libero scambio, apparivano del tutto inadatte alle condizioni del Sud. Il personale di quasi tutte le prefetture era costituito da personale piemontesi. I notabili meridionali che avevano goduto di potere e prestigio sotto i Borboni si trovarono esclusi dalle cariche di corte. I deputati meridionali non gradivano le spese che erano costretti a sostenere per il viaggio a Nord e il soggiorno a Torino quanto dovevano partecipare alle sessioni parlamentari, tanto più che i membri del Parlamento non percepivano alcun compenso”.
Ricorda poi Mack Smith che: “Alla fine del 1863 Garibaldi dette clamorosamente le dimissioni dalla carica di deputato in segno di protesta contro la legge marziale in Sicilia e la mancanza di rispetto che il governo dimostrava verso le popolazioni siciliane”.
Nel 1894 quarantamila soldati piemontesi furono inviati in Sicilia per reprimere i fermento sociali causati dai Fasci siciliani. L’azione condotta dai militari fu durissima e uno dei movimenti di punta più significativi dei fine secolo, per la rivendicazione dei diritti sociali, fu soffocato nel sangue. Con questo atto si affondava definitivamente la Sicilia, l’ultimo baluardo di difesa della gente era stato abbattuto e la monarchia piemontese aveva contribuito a consegnare l’isola agli speculatori, alla mafia, al malaffare. E’ significativo, infatti, che i “nuovi” nobili e gli arricchiti saranno da quel momento in poi monarchici e che la Democrazia cristiana per governare nelle zone interne dovette, nel secondo dopoguerra, scendere a patto con costoro.
Un’ultima battuta, semplice e aleatoria, poiché nella storia i “se” e i “ma” non contano proprio nulla… Come disse la regina Maria Sofia nel film “O’ re” di Luigi Magni, nell’interpretazione di Ornella Muti: “E se la rivoluzione l’avessimo fatta noi?”.

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